Introduzione. Distinguere verità e fake news, serve una pedagogia educativa
a cura di Enrico Larghero
Comunicare nel mondo globale è diventata una delle problematiche di maggiore attualità. Permangono tuttavia molte criticità legate al ruolo ed al significato dell’informazione. La molteplicità delle fonti allarga i nostri orizzonti, ma appare sempre più difficile discernere, elaborare una pedagogia educativa in grado di distinguere tra verità e fake news.
Nonostante questi impedimenti, o meglio, proprio per tali ragioni, si avverte sempre più la necessità di un giornalismo autorevole e di professionisti che, in scienza e coscienza, svolgano un servizio alla comunità, in libertà e responsabilità, senza piegarsi a lobbies politiche ed interessi economici. Il potere dei media è notevole, in grado di influenzare e condizionare nel bene e nel male la nostra società.
C’è da avere – scrisse Napoleone Bonaparte – più paura di tre giornali ostili che di mille baionette.
Intervista
Il mondo è a portata di mano, le tecnologie ci permettono di ampliare la nostra conoscenza culturale e di informazione su quanto accade attorno a noi a distanza di un raggio fino agli estremi opposti del pianeta. La curiosità ― una sana curiosità, distinta dalla morbosità ― è il motore che muove il desiderio di un sapere che arricchisce il nostro senso di esistere. In una massiccia e sovrabbondante esposizione il discernimento umano sull’affidabilità delle realtà che ci vengono rappresentate diventa tuttavia impegnativo districando tra continui e diversi flussi informativi fagocitanti in un sistema di dati algoritmici, comunque ideato e realizzato dall’essere umano, in un’infosfera che abitiamo e in cui si è in cammino per trovarvi soluzioni etiche affinché si salvaguardi e prevalga il pensiero e la cultura umana sulla tecnica.
Se la lettura di un’opera, la visione di un film, l’osservazione di un manufatto artistico ci restituiscono uno sguardo narrativo e riflessivo sul mondo interiore e sul tempo vissuto dall’artista, l’informazione dei media ci deve aprire ai fatti che accadono nella società contemporanea, da quella locale a quella internazionale, fatti che, nel loro insieme, una volta divulgati, fanno crescere nei cittadini un pensiero critico, attento e consapevole delle storture e dei bisogni esistenti. Ci sono giornalisti che hanno sacrificato, e continuano a mettere a repentaglio la propria vita per la “libertà di informazione e di critica” sui fronti di guerra, delle criminalità organizzate. Importanti a Strasburgo la recente consegna del premio Daphne Caruana Galizia, la giornalista maltese uccisa nel 2017 mentre indagava alla ricerca di verità sul proprio Paese, a Clèment Di Roma e Carol Valade per il documentario «The Central African Republic under Russian influence» e l’annuncio del prosieguo dei lavori della legge europea sulla libertà dei media, che prenderà il nome di Legge Daphne.
A Torino la Facoltà Teologica ha voluto aprire la XIV edizione del Corso specialistico di Bioetica Avanzata, intitolato «Dignità umana e diritti universali con un confronto su meccanismi e criticità nel mondo dei media tra Informazione ed etica». Un confronto complesso e che si apre a varie sfumature, per meglio comprendere le questioni in ballo, abbiamo intervistato Francesco Ognibene, caporedattore al desk centrale di Avvenire, autore di servizi su temi di bioetica, curatore dell’inserto settimanale «è Vita», e Gian Mario Ricciardi, volto conosciuto del telegiornalismo Rai Piemonte, lunga esperienza di capocronista, poi caporedattore centrale e responsabile della testata TGR.
D. Francesco Ognibene, in una società globalizzata e digitalizzata, libera di essere abitata da tutti, il settore giornalistico è investito di una responsabilità nei confronti del lettore, dei giornalisti si dice «è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede» (art. 2, L. n. 69 del 3 feb 1963, ordinamento della professione di giornalista, agg. con L. 198/2016 e dl 67/2017). Come ci si muove per rispettare questo principio?
R. Si parte dall’essere un servizio pubblico vocato a restituire ai lettori con onestà, in modo semplificato ma non riduttivo, comprensibile ma accurato, la realtà in tutta la sua complessità: un impegno continuo a riconoscere dentro gli avvenimenti la verità, il nucleo che spiega un fatto e tutto ciò che lo riguarda. Occorre informarsi per avere una conoscenza il più possibile completa e approfondita, consapevoli che vi sono informazioni di importanza primaria e altre accessorie. Serve per restituirla ai lettori cercando di rispondere a interrogativi che il pubblico può porsi, per vivere una cittadinanza bene informata. Dinanzi all’affastellarsi caotico delle informazioni il ruolo del giornalista oggi è di essere un punto di riferimento attendibile e affidabile, che verifica sempre le fonti, comprese quella di origine social. E lo fa apponendo la propria firma.
D. Gian Mario Ricciardi quale è il suo parere?
R. La verifica delle fonti è il primo dovere. Mi sembra di poter constatare oggi una certa mancanza di passione informativa che ha caratterizzato invece per tanti anni il giornalismo italiano.
D. Ognibene, cosa teme di più?
R. Il condizionamento delle valutazioni di matrice algoritmica sull’informazione online. Deve sempre e comunque primeggiare l’accuratezza dell’informazione.
D. Ricciardi, cosa intende per giornalismo?
R. I giornalisti non nascono a tavolino ma in strada. Sono nato e cresciuto andando a seguire i discorsi nei quartieri di Torino, ma anche le eclatanti vicende di cronaca da Erica – Omar a Cogne ad esempio. C’è un giornalismo specialistico ma i giornalisti della notizia, che chiamo badilanti, devono uscire in strada, parlare con e saper ascoltare la gente. Occorre umiltà, onestà, indipendenza, ricerca paziente delle fonti, capacità di ascolto, ostinazione della ricerca.
D. E come trova la Rai del Piemonte oggi rispetto al suo tempo?
R. Ho sempre immaginato un forte legame del TGR con la regione, ho avuto la fortuna di aver fatto le mie più grandi esperienze negli anni di Gianfranco Bianco, Orlando Perera e tanti altri colleghi con cui si parlava del “nostro” Piemonte, talvolta esagerando, in cui c’era un grande legame, mentre oggi un pochino sta venendo meno. C’è una classe giornalistica nuova, eccepibile dal punto di vista professionale formata a Perugia, che però non conoscendo bene il Piemonte fa alcuni errori di pronuncia di toponomastica. Si diventa direttori, questo è quanto penso ancora, dopo un po’ di anni, alzandosi alle 4 del mattino per andare a preparare Buongiorno Regione che va alle 7.30 e chiedere scusa quando si sbaglia.
D. Concludendo, lei Ognibene, che si occupa da anni di bioetica, cosa ne pensa al riguardo?
R. L’informazione bioetica risente dell’influenza delle opinioni da talk show, dove si è invitati a schierarsi uno contro l’altro, su posizioni sempre più irrigidite negli schieramenti in materia di etica della vita. Così si finisce per impedire un confronto vero tra idee che finiscono per essere scambiate per verità assolute, con un sapere che diventa acritico. Riporto l’esempio dell’asserito diritto all’aborto: l’interruzione di gravidanza è un servizio riconosciuto dalla legge 194, ma è proprio in questa legge che non c’è scritto da nessuna parte che si tratta di un diritto.
Si ringrazia il direttore Alberto Riccadonna per la pubblicazione dell’intervista uscita su La Voce e il Tempo, 27 novembre, pp. 27
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