Introduzione
a cura di Enrico LARGHERO
L’Economist Group ha recentemente pubblicato un Report dal quale risulta che l’industria farmaceutica nel 2022 ha registrato un incremento di vendite del 4,6%, portando così il fatturato complessivo globale alla cifra record di 1,5 trilioni di dollari.
I profitti sono significativi, da sempre il mondo della salute è un business, ma non bisogna dimenticare, senza cadere nella trappola dei luoghi comuni, che anche gli investimenti delle grandi multinazionali (Big-Pharma) sono economicamente significativi. Il processo per la scoperta di una nuova molecola dura in media 10 anni e richiede l’investimento di milioni di euro.
Anche per tali ragioni lo spazio dedicato ad alcune patologie particolari è praticamente inesistente. Le malattie rare che, per definizione, colpiscono una fascia minima di popolazione, non sono pertanto oggetto di studio.
Da ciò nasce la definizione di “farmaci orfani”. Come uscire da questa posizione di stallo non è semplice. Alcune strade forse sono possibili. Una è quella di sensibilizzare gli Stati ad elaborare politiche verso la ricerca (l’Italia, ad esempio, investe appena l’1,5 del PIL). Un’altra opzione sarebbe quella di creare una rete virtuosa di contributi liberali in sinergia con industrie specifiche del settore privato. È un sogno, ma anche i sogni possono diventare realtà.
Farmaci “orfani”? Orfani di chi?
Perché, in base agli studi scientifici accreditati, sono farmaci di dimostrata utilità ma non trovano nessuna industria farmaceutica che li produca, li metta in commercio e, quindi, li renda disponibili ai malati che ne hanno bisogno. Il motivo? Non garantiscono un profitto minimo sicuro e si rischia di produrli in perdita.
I farmaci orfani comprendono, per esempio, quelli necessari a curare le malattie tropicali trascurate (“Neglected Tropical Diseases” – NTD – una lista di più di venti voci secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità) che non possono avere un mercato remunerativo nei Paesi a Basso Reddito dove tali malattie sono endemiche.
Ma nel nostro Paese la categoria forse più importante di farmaci orfani è quella destinata alla cura delle circa 7.000 “malattie rare” ufficialmente registrate finora. Malattie spesso talmente rare da non consentire il recupero dei costi sostenuti per la ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci efficaci per contrastarle. Il tempo medio di sviluppo di un farmaco è di 10-14 anni ed il costo di 500 milioni – 1 miliardo di dollari!
E di che cosa? E perché?
Sono quindi medicinali impossibili da reperire ma che rispondono a un reale bisogno di salute pubblica. Infatti sono state le Associazioni di tutela delle persone affette da malattie rare che si sono, per prime, fatte portavoce di questa importante azione di advocacy, hanno attirato l’attenzione pubblica sul problema e responsabilizzato i decisori coinvolti.
Alcuni importanti traguardi sono già stati raggiunti, soprattutto in Europa e America del Nord, con leggi quadro ad hoc che garantiscono incentivi mirati allo studio ed alla produzione dei farmaci orfani, prevedono una durata più prolungata dei diritti di brevetto ecc.
Ci sono ovviamente state anche delle speculazioni e degli abusi per cercare di usufruire ingiustamente di questi aiuti. Per esempio il tentativo di “reciclare” come farmaci specifici per patologie rare, a prezzi elevati, molecole già ampiamente utilizzate per altre indicazioni a prezzi modesti, come l’ACTH (accettato in questa forma in USA ma non in Europa) o la Vit C e l’ASA (per ora bloccati). Oppure si commercializza un farmaco effettivamente nuovo e utile, ma imponendo un prezzo veramente spropositato, come è avvenuto per il tafamidis, uno stabilizzatore della transtiretina, per la cura dell’amiloidosi cardiaca.
Queste aberrazioni, comunque limitate, non devono farci desistere dal sostenere la ricerca e la produzione dei farmaci orfani, anzi spronarci ad ampliarla in modo corretto e tutelarla da abusi, proprio per il bene dei pazienti.
Proposte su come investire in ricerca e nella produzione dei farmaci orfani
Interessante un dato fornito dall’AIFA (l’Agenzia Italiana del Farmaco): almeno la metà dei 1.200 principi attivi (presenti in 12.000 confezioni di medicinali attualmente in commercio) potrebbero essere eliminati, come ridondanti, dalla lista di quelli rimborsabili da parte del Sistema Sanitario Nazionale (SSN). Sarebbe un risparmio annuo pari a 22 miliardi di € (il 17% del bilancio globale della Sanità) che, almeno in parte, potrebbe essere destinato alla ricerca e produzione dei farmaci orfani.
Un’altra possibilità è ricorrere all’utilizzo di prodotti già correntemente in commercio, senza registrarli per nuove patologie. Questo impiego “off label” è già da tempo ben normato nel nostro come in altri Paesi; bisognerebbe però liberarlo da pesanti pastoie burocratiche e liberalizzarlo più ampiamente nel caso delle malattie rare, operazione utile anche sul fronte della diagnostica, come nel caso dell’impiego dei difosfonati marcati (99MTC-DPD), già ampiamente utilizzati per la scintigrafia ossea, nello studio dell’amiloidosi cardiaca.
La questione etica: come poter garantire un farmaco orfano a chi ne ha bisogno
Il dilemma etico più cruciale, per ogni farmaco orfano che sia “adottato” dal SSN, si pone però sul fronte della valutazione costo/efficacia. Garantire a tutti i pazienti farmaci altamente costosi, spesso per tutta la vita, impone all’erario pubblico un onere che può veramente diventare non più sostenibile, soprattutto se si tratta di cure che non aggiungono molto, in termini di sopravvivenza e di qualità della vita, all’armamentario terapeutico già disponibile.
È quindi molto importante riuscire a fare discernimento nel definire questo difficile equilibrio tra tensioni etiche differenti: garantire tutto quello che serve veramente a chi ne ha bisogno anche se a costi elevati, da un lato, e distribuire le risorse limitate a disposizione in modo equo, sostenibile e con il massimo della resa, dall’altro. Alcune istituzioni serissime, come per esempio il NICE (National Institute for Health and Care Excellence del Regno Unito) stanno da tempo applicando degli algoritmi il più possibile oggettivi ed omogenei che mettano in relazione, per ogni nuovo farmaco, l’aumento della sopravvivenza, corretto per la qualità di vita, con l’aumento dei costi rispetto alle terapie standard già in uso.
Il NHS (National Health Service = il Servizio Sanitario Nazionale UK) inserisce un farmaco orfano per malattie rare nella lista di quelli rimborsabili solo se dimostra di garantire un risultato terapeutico significativamente migliore di quelli già in uso e non genera un aumento di spesa maggiore di 30.000 £ per ogni anno di sopravvivenza libera da disabilità (QALY = quality-adjusted life-year) garantito ai pazienti che ne hanno bisogno.
Una decisione arbitraria ma che è necessario prendere, cercando di farlo nel modo più scientificamente fondato e socialmente equo possibile: un esempio delle tante sfide che la Bioetica oggi si trova ad affrontare…
© Bioetica News Torino, Febbraio 2023 - Riproduzione Vietata