Introduzione di Enrico Larghero
Si conclude con una riflessione filosofica il breve excursus dedicato alla famiglia. Un’analisi ovviamente incompleta, ma che aveva lo scopo di portare un piccolo contributo ad una delle problematiche più dibattute ai nostri giorni. Esperienza insegna che le criticità, al di là dei momenti contingenti, vanno viste dall’alto, interpretate ed inquadrate secondo dinamiche più complesse. Famiglia, scuola e società sono così strettamente connesse tra loro che non è possibile analizzare una componente senza coinvolgere l’altra, ovvero, come si usa dire oggi, tutto è connesso. In un mondo che corre veloce si rivela tuttavia sempre più arduo trovare quel filo conduttore in grado di elaborare una riflessione sul senso da dare alla nostra esistenza. Da dove ripartire? Difficile dirlo con certezza. Forse però si può ricominciare partendo dalla testimonianza e dall’ascolto, in altre parole, dalle relazioni autentiche tra le persone. Nel semplice incontro di un uomo con l’altro – ha scritto il filosofo francese Emmanuel Lévinas – si gioca l’essenziale, l’assoluto: nella manifestazione, nell’Epifania del volto dell’altro scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere con l’altro.
Famiglia e genitorialità ai tempi dell’individualismo. Una riflessione filosofica
La crisi della famiglia è una problematica poliedrica e complessa, la cui analisi dev’essere multidisciplinare. La multidisciplinarità permette di affrontarne con efficacia alcuni aspetti, ma rischia di offuscarne la profondità: questa crisi non può essere affrontata solamente nelle sue cause e soluzioni tecniche perché è fondamentalmente una crisi esistenziale che affonda le radici nell’individualismo ormai pervasivo che comporta un’esperienza rarefatta del mondo e dell’altro.
Per analizzare la dimensione esistenziale in cui si innesta la crisi della famiglia, è illuminante riflettere sulla condizione che Kierkegaard associa allo “stadio estetico”, quella dell’individuo che vive all’insegna del carpe diem, alla ricerca costante di sensazioni ed esperienze sempre più intense che si esauriscono una dopo l’altra (e l’una nell’altra), ma esteriori, vuote, insignificanti. Subentra la noia. L’individuo vive solo e privo di consapevolezza, di speranza, di ricordi, di progettualità.
Oggi l’esteta kierkegaardiano vive con l’ulteriore aggravante della straordinaria velocità con cui si muove – quella sfrenata del consumismo più estremo. La branca della experience economy evidenzia che oggi il consumo non riguarda più solo il procurarsi un bene, ma anche il godimento di un’esperienza di fruizione. Mi pare si possa sostenere una tesi ancora più forte: il consumismo oggi è in funzione del consumo di esperienze, il possesso dei beni è in funzione della loro esposizione mediatica veloce e transeunte – l’unità di misura temporale sono le stories sui social.
La crisi del matrimonio e il drammatico arresto delle nascite sono segnali inequivocabili della difficoltà delle nuove generazioni di impegnarsi in vincoli che incarnano il temutissimo spauracchio del “per sempre” (che va di pari passo con la richiesta di riconoscimento di “famiglie quamvis”). Questa modalità di vita è infatti incompatibile con l’assunzione delle responsabilità e con la formulazione di progettualità necessarie per la vita matrimoniale e la genitorialità (Kierkegaard oppone alla vita estetica proprio il marito come figura dello stadio etico). La fruizione parcellizzata di contenuti e il consumo istantaneo delle esperienze sono complici nella costruzione di vite deprivate della dimensione più profonda. Il principio di autodeterminazione, assunto come principio unico di vita e non mediato da altri principi etici, finisce inoltre per rendere non significative tutte le relazioni e condannare l’altro a un destino crudele: l’altro non è (in quanto oggettificato) oppure è nemico perché costituisce un ostacolo all’autodeterminazione. Antinatalismo, aborto ed eutanasia sono esempi delle derive ideologiche dell’individualismo.
Ci troviamo in piena “pandemia esistenziale”: come possono svilupparsi relazioni autentiche, come può esistere la famiglia in senso pieno in una società fatta di monadi, di individui intrappolati in una dimensione solipsistica? Questo approccio alla vita è così diffuso che la crisi esistenziale provocata dall’individualismo assume (paradossalmente!) una portata collettiva. Ed è proprio l’aspetto collettivo della crisi a poter costituire il “punto d’appoggio per sollevare il mondo” e uscirne.
Il primo passo è il corretto inquadramento del problema: è possibile rispettare l’individualità della persona umana senza sacrificare all’altare dell’autodeterminazione tutta la ricchezza relazionale intrinseca all’essere umano? È possibile valorizzare l’individuo, garantendogli autonomia, ma senza ridurlo a questa componente?
Sul versante teorico, credo si possa essere ottimisti: l’autodeterminazione non è l’unica alternativa a un ingombrante paternalismo, incompatibile con la nostra società. Possiamo elaborare un approccio che metta al centro l’individuo valorizzando al contempo gli aspetti relazionali della costruzione della persona umana.
Sul versante pratico, dovremmo partire dalla presa di consapevolezza della portata epocale di questa crisi esistenziale e del fatto che essa ha i tempi lenti e lunghi della riflessione – così diversi dalla fruizione rapidissima del consumismo. È poi necessario intervenire per ricostruire reti relazionali concrete, valorizzando gli spazi fisici e i tempi di aggregazione. Momento fondamentale di questi interventi è la gravidanza, esperienza privilegiata di incontro con l’altro, in cui la vita si fa presente nella sua irriducibile concretezza e nella sua altrettanto irriducibile relazionalità. Va valorizzata, quale tempo di crescita personale e di coppia, mediante percorsi di accompagnamento alla genitorialità (la Scuola di maternità organizzata dal Movimento per la Vita di Torino andava in questa direzione).
Ancora, è cruciale l’azione educativa dei giovani. È necessario riflettere insieme a bambini e ragazzi sul fatto che abbiamo una dimensione esistenziale, una dimensione di profondità e di ricerca di senso. L’esercizio filosofico (nel senso più nobile del termine) va accompagnato con la presentazione di testimonianze di vita vissuta: vite che non risultano affatto “fallite” o “condannate” a causa della genitorialità o della malattia, vite che hanno trovato senso proprio nelle relazioni di cura e in una progettualità serena, capace di trascendere una banale (e noiosa) superficialità.
Se le nuove generazioni sono esistenzialmente portate a non avere fiducia né ricordi, spetta a noi educatori fungere da stampella, coltivando in prima persona un fecondo surplus di speranza e di memoria che possa permettere loro di edificare una nuova cultura basata sulle relazioni e sull’amore.
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