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106 Settembre
Speciale Dignitas Infinita

Eutanasia e suicidio assistito

L’onestà intellettuale è alla base della corretta impostazione dei problemi, a prescindere dalla loro natura. Un luogo comune, ad esempio, sostiene che in Italia il principale ostacolo ad una legge su eutanasia e suicidio assistito sia posto dalla presunta ingerenza dei cattolici nella res publica. I dati smentiscono questa “deriva ideologica” e, tra le 193 Nazioni che attualmente compongono la geografia del mondo, quelle che hanno legiferato a favore di eutanasia e suicidio assistito possono contarsi sulle dita delle mani. Giovanni Bersano, medico oncologo e docente al Master in Bioetica, approfondisce la tematica trattata in Dignitas Infinita. Tra accanimento terapeutico e richieste di morte si pongono le cure palliative, rispettose della deontologia medica, della dignità del malato e del contesto familiare.

Enrico larghero

La Dichiarazione “Dignitas Infinita”, ai punti 51 e 52,ribadisce con forza che Eutanasia e Suicidio Assistito sono particolari violazioni della Dignità umana proprio perché rivolte contro la Vita.
 La tutela della Vita in tutte le sue fasi è compresa, per il Cristiano, nei cosiddetti Principi non negoziabili che, nel magistero di Benedetto XVI, non sono verità di fede ma fondano e sorreggono tutti gli altri principi e sono iscritti nella Natura umana stessa.
  I giorni nostri, però, sono caratterizzati dall’indebita preminenza dei diritti di Libertà intesa, questa, come valore fondamentale che misura tutto e che nell’ esasperazione del concetto di autodeterminazione del singolo individuo rischia di comprimere le relazioni sociali e il riconoscimento dell’altro, vedendo spesso sacrificato, o quantomeno postposto, al Bene Comune il proprio bene personale. Inoltre è noto che le filosofie antropocentriche oggi dominanti sono soggette al mito del Progresso alimentato e sostenuto dalla ricerca scientifica e dall’affinamento di tecniche sempre nuove che fanno perdere il senso del limite umano.
 Di conseguenza, anche il tema della Morte, seppure pur faticoso da accettare, ma che rappresenta il limite per eccellenza, quel  confine  (il Limes degli antichi) che come tale definisce la vita nel suo compiersi, viene  considerato come una malattia da debellare trasformando così la Morte da fenomeno sociale a fatto privato, perdendo anche la dimensione rituale e simbolica e  quindi disumanizzandola per considerarla  una sconfitta che porta sofferenza , ossia qualcosa di assurdo e in  contrasto con la stessa la stessa natura umana. Le conseguenze di tale scientismo e tecnicismo comportano, nell’esercizio della Medicina, il fenomeno assai frequente dell’accanimento terapeutico così come definito assai efficacemente dal Comitato Nazionale di Bioetica:   “ …inizio di trattamenti che si presumono inefficaci o la prosecuzione di trattamenti divenuti di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo di cura della persona malata o di miglioramento della sua qualità di vita (intesa come benessere) o tali da arrecare al paziente ulteriori sofferenze e un prolungamento precario e penoso della vita senza benefici….….è convinzione che sia dovere prioritario del medico astenersi dall’iniziare o dal prolungare trattamenti inutili o sproporzionati”. 
 E’ innegabile e comprensibile che persone che si trovino in tale situazione possano lamentare violazioni della propria dignità umana e personale così come tra i 24 milioni di italiani, censiti dal Rapporto Osserva Salute del 2024, affetti almeno da una patologia cronica, soprattutto se progressiva, degenerativa e invalidante, ci siano richieste più o meno esplicite di suicidio assistito se non di eutanasia.
Quali possibilità, allora, nella prassi per tutelare la Vita al suo termine? Quali strategie assistenziali applicare quando le terapie causali non siano più efficaci e indicate? Cosa collocare tra gli estremi rappresentati dall’accanimento terapeutico da un lato e l’eutanasia dall’altro?
Tra questi estremi vi è lo spazio necessario per la qualità di vita dignitosa, per il controllo dei sintomi fisici, per l’autenticità delle relazioni e per l’elaborazione dei vissuti, attuali e passati, nella ricerca del “senso” di quanto accade.  Questo spazio è occupato da una disciplina di relativa recente istituzione  ma antica almeno quanto il Cristianesimo, la Medicina Palliativa. L’esercizio delle Cure Palliative, infatti,  induce la Medicina a fare i conti col processo di produzione continua di senso, che fonda e sostiene l’autentica relazione di cura  che è il rapporto dialettico tra Libertà e Autorità ispirato ai principi di Appropriatezza, Professionalità e Consensualità e che si sostanzia nella Pianificazione Condivisa delle cure rispettando l’individuo nella sua globalità, fisica, psicologica e spirituale. In tale contesto la relazione tra curante e curato diventa il punto più elevato di Accordo Sociale in quanto affidamento a un’altra persona della propria salute e della propria vita per “guarire” anche nelle situazioni più estreme, il che significa non solo non avere sintomi ma significa rafforzarsi grazie a capacità di autosostegno tali da dare un senso alla propria vita nonostante la presenza di malattia e la prospettiva di morire.
 Il “prendersi cura” di chi soffre è una attività umana autentica, come ci ricorda papa Francesco nella Samaritanus Bonus, che non può prescindere dalla capacità di comprendere che cosa stia sperimentando un’altra persona dall’interno del suo sistema di riferimento, in un perdurante dialogo sincero e veritiero in grado di dare spazio anche alla Speranza, ovviamente basata sulla realtà. Questo è il modo di salvaguardare la dignità di ogni individuo, rifuggendo da soluzioni in apparenza pietose ma che ledono il diritto fondamentale alla Vita, pur con tutti i limiti umani. Tutto ciò risulta ancor più valido e attuale in un’epoca storica in cui si moltiplica l’appello ai diritti senza aver chiaro il loro fondamento e la distinzione dai semplici desideri oltre al tipo di doveri implicati nel loro riconoscimento.
Gli stessi principi per i quali si rifiutano l’eutanasia e il suicidio assistito valgono per il dovere di prendersi cura dei soggetti più svantaggiati della società , segnati da fragilità o disabilità come descritto ai numeri 53 e 54 della dichiarazione Dignitas infinita e come raccomandato da papa Francesco  agli operatori sanitari: “La salute non è un lusso! Un mondo che scarta gli ammalati, che non assiste chi non può permettersi le cure, è un mondo cinico e non ha futuro.  Vi esorto a guardare sempre ai valori etici come riferimento indispensabile per le vostre professioni. I valori infatti, se ben assimilati e uniti al sapere scientifico e alle necessarie competenze, permettono di accompagnare nel migliore dei modi le persone che vi sono affidate”. 
Il rispetto della Dignità umana passa necessariamente attraverso la solidarietà, la compassione, la vicinanza e l’accompagnamento umano che sono espressioni del comune sentire e sono praticabili da tutti a prescindere dal credo religioso ma per il Cristiano hanno fondamento nell’ Amore e quindi penso che come Cristiani dovremmo  preferire la Carità all’altruismo perchè la Carità risplende e può essere autenticamente vissuta solo nella Verità;  Benedetto XVI nell’enciclica sociale Caritas in veritate del 2009, ci ha insegnato che la “Verità libera la Carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali e da un fideismo che la priva di respiro umano e universale”.
Solo in questo modo, con Carità nella Verità, nel tutelare la vita e nel rispettare la dignità umana  potremo  evitare la tentazione offerta dalla Casuistica, ossia di superare i Dogmi per opinioni dettate dalle circostanze e dalle situazioni, e da quella che il cardinale Sarah definisce la più grande tentazione del nostro tempo, l’ Ateismo fluido”, la cui essenza è costituita dall’ accomodamento tra la Verità e la menzogna.

Giovanni Bersano

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