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15 Dicembre 2013
Supplemento Concerto al Santo Volto

«Elogio della fragilità». La prospettiva cristiana

Cos’è una perla? È un qualcosa nata dal dolore. Infatti nasce quando un’ostrica viene ferita. Quando un corpo estraneo – un’impurità, un granello di sabbia – penetra al suo interno e la inabita, la conchiglia inizia a produrre una sostanza (la madreperla) con cui lo ricopre per proteggere il proprio corpo indifeso. Ecco che alla fine si sarà formata una bella perla, lucente e pregiata. Se non viene ferita, l’ostrica non potrà mai produrre perle, perché la perla è una ferita cicatrizzata.

Vorremmo essere semplici «ostriche vuote». Ma questo non ci è dato

Il principio di tutti i mali, è un’errata – quanto perversa – idea di perfezione1 che ci portiamo dentro. Idea alla quale pensiamo dovrebbero corrispondere il nostro essere, quello degli altri e quello di Dio.

Ciò che ci fa male, ciò che è distruttivo, è l’idea di dover essere in un altro modo; che, per essere accettati da noi stessi, dagli altri e da Dio, non dovremmo essere abitati da impurità. Vorremmo essere semplici «ostriche vuote», senza corpi estranei. Dei «puri» insomma. Ma questo non ci è dato. E anche qualora ci considerassimo tali, ciò non significherebbe che non siamo mai stati feriti, ma solo che non lo riconosciamo, non riusciamo ad accettarlo, che non abbiamo saputo perdonarci e perdonare, comprendere e trasformare, avvolgere le nostre ferite con quella madreperla, che fuori di metafora è l’amore, rimanendo semplicemente poveri e terribilmente vuoti.

È fondamentale giungere a comprendere l’importanza – in noi e fuori di noi, nelle nostre relazioni – della presenza dei limiti, delle ferite, delle zone d’ombra; capire, alla luce del messaggio evangelico, che tutto ciò che del nostro ed altrui mondo interiore è segnato dall’ombra e dal limite, è l’unica nostra ricchezza, e che proprio lì è possibile fare esperienza della nostra salvezza.

Tutto può essere trasformato in grazia, persino il peccato, diceva Agostino. Persino la nostra sessualità ferita e le nostre nevrosi, aggiungeremo noi, a condizione di farne un’occasione per aprirsi, per accogliere e condividere. Avremmo perciò torto a disprezzarle. Dobbiamo invece imparare a farne buon uso. Sono materia di santità» (André DAIGNEAULT, La via dell’imperfezione, Effatà Editrice, Cantalupa (To) 2012, p. 17)


1 Il termine perfezione nel Vangelo occupa un posto rilevante, ma occorre andare al suo significato più profondo. La traduzione perfezione rende il termine greco teleiōtes: completezza, compimento, maturità. Il verbo sarete perfetti (Mt 5, 48) è la traduzione di: Eseste téleioi: da teleioō: terminare, concludere, portare a compimento, rendere perfetto. La perfezione evangelica ha dunque il sapore dell’opera d’arte che deve essere portata compimento; attraverso l’amore l’uomo raggiunge il compimento di quel compito, di quell’opera d’arte che deve essere.


In una rilettura cristiana, la salvezza – o santità- cosa sarà dunque? Semplicemente, e finalmente, renderci conto della nostra verità, giungere a vivere ciò che nella spiritualità viene chiamata umiltà; renderci conto insomma che siamo esseri feriti, limitati, fragili, ma al contempo oggetto dell’“amore folle” (Nicola CABASILAS) di un Dio che – proprio perché siamo fatti così – viene a visitarci e ad inabitarci.

La santità [non intesa come conquista morale] ha così poco a vedere con la perfezione che ne è l’assoluto contrario. La perfezione è la viziata sorella minore della morte. La santità è il gusto forte della vita così com’è – una capacità infantile di rallegrarsi di ciò che è, senza chiedere nient’altro (Christian BOBIN)

Con insistenza il Vangelo ci esorta a «mettere nel mezzo» il nostro limite e la nostra fragilità (cfr. l’uomo con la mano paralizzata, Mc 3,3 e Lc 6,8; il paralitico, Lc 5,19). Mettere nel mezzo le nostre zone d’ombra vuol dire riconoscere da una parte la loro esistenza, e dall’altra che esse, dinanzi alla resurrezione di Cristo, non sono l’ultima parola sulla nostra umanità.

Abbiamo fatto del cristianesimo la religione del «tendere al perfezionismo morale» confondendolo con la santità

L’idea ‘malata’ di perfezione inficia tutto il nostro mondo relazionale: apparire agli altri perfetti, non macchiati da limiti o fragilità, ovvero vivere attraverso quelle performance che essi s’aspettano da noi e che ci rendono ben accetti, ben voluti. Amati.
Questo lo impariamo sin da piccoli verso i genitori, per poi viverlo con gli insegnanti, gli educatori, i datori di lavoro, il proprio partner, noi stessi e Dio.
Ma non si può vivere una vita così; non si può resistere in un continuo sforzo di mostrarsi adatti, performanti, perfetti, per rassicurare gli altri al fine di far loro piacere.
Il vero dramma per il cristiano è il desiderio d’essere performanti anche dinanzi a Dio. Abbiamo fatto del cristianesimo la religione del «tendere al perfezionismo morale» confondendolo con la santità , come se fosse l’unica condizione per ottenere l’amore di Dio e i suoi doni. Ma l’unico dono che Dio potrà concedermi non sarà altro che se stesso, ovvero: Amore, perdono e misericordia. E tutto questo potrà donarmelo solo quando mi riconoscerò necessitante di amore, peccatore e misero.

La santità che ci propone Gesù non è di ordine naturale, ma è una santità da accogliere nella nostra povertà. Cristo è venuto per i peccatori e i deboli, e non per i forti che stanno bene. Lo schema di perfezione umana basato sulla volontà e l’ascesi segue un tracciato esattamente opposto a quello della santità che ci propone Gesù nel Vangelo» (André DAIGNEAULT, La via dell’imperfezione, cit., p. 24) 

a salvezza ci giungerà dunque non quando avremo sconfitto le nostre miserie, ma quando cominceremo a vivere nella verità di noi stessi, ad accettarci cioè con le nostre fragilità. Non siamo altro, anche se magari lo desideriamo, anche se ci nascondiamo dietro a delle maschere e recitiamo copioni che non ci competono.

Il Vangelo, una splendida scuola di realismo

Il Vangelo è una splendida scuola di realismo. Gesù è venuto a toglierci le maschere di teatranti, perché potessimo essere finalmente liberi di essere noi stessi, a costo di apparire inadatti agli occhi del mondo.
Il Vangelo è una continua memoria dell’incarnazione; il Dio fattosi accanto non è venuto a toglierci l’inadeguatezza, la fragilità, il limite, ma a liberarci dalla paura che tutto questo esercita su di noi, perché non siamo schiacciati sotto questo peso immane.
Occorre avere il coraggio – e la grazia – di restituire alle nostre ferite il diritto di cittadinanza!
Il rapporto con noi stessi e la nostra vita quotidiana (sociale, familiare, relazionale) diverranno «paradisiaci» quando riusciremo ad accoglierci ed amarci non malgrado, ma attraverso tutte le nostre ferite e le nostre debolezze. Una comunità – sia essa civile, familiare, religiosa – sarà un ‘paradiso’ non quando tutti saranno perfetti e non vi saranno più tensioni, bensì quando ciascuno potrà finalmente gettare via la maschera che gli copriva la sua vera identità, perché si sentirà accettato e amato così com’è; quando limiti, peccati, ferite e tradimenti non sono più occasioni di divisione e maledizioni, ma luoghi dove potersi amare e perdonare. Diverremo umani, quando accoglieremo la nostra reciproca umanità.

Se accostiamo la Parola di Dio, rimaniamo stupiti dal fatto che essa pare essere uno splendido Elogio della vita imperfetta. Il procedimento non è dal meno al più, bensì dal più al meno. Tutto pare guastarsi immediatamente. Altro che perfezionismo morale. A ricordarci in maniera eminentemente sapienziale, che senza limite e senza conflitto non c’è storia, e tanto meno storia della salvezza.
Letteralmente in Genesi abbiamo: «E disse Iod Elohim “Non è bene essere l’Adam lui solo: farò per lui un aiuto che gli sia contro”» (Gn 2, 18). Dio ha appena collocato Adam nel giardino di Eden e ne avverte la solitudine, perché conosce i desideri e le mancanze della sua creatura prima ancora che essa stessa li possa sentire e formulare. E gli pone accanto un «tu» che ha la funzione di essergli contro, in modo che in-contrandolo (ovvero in e scontrandosi) possa relazionarvisi e in questo modo diventare pienamente se stesso.
L’ostacolo è la condizione perché la luce possa risplendere; l’attrito è la condizione perché il movimento possa verificarsi; il peccato è la condizione perché Dio possa rivelarsi per quel che è, e Dio è solo amore che prende il nome di misericordia.
Va da sé che raggiungeremo la “santità”, come si è poc’anzi accennato, non quando tutto questo mondo umbratile che ci portiamo dentro scomparirà, ma quando in tutto questo sperimenteremo la presenza di Dio che viene a farci visita e a manifestarci il suo amore.

Si sa che il diamante e il carbone sono costituiti chimicamente dalla stessa materia, ma con una diversa struttura fisica. La differenza risiede nel fatto che il diamante permette alla luce di attraversarlo, il carbone no. Quest’ultimo praticamente non vale nulla, mentre il primo ha un valore immenso. A noi deciderci se essere diamanti, la cui unica ricchezza consiste nel farci attraversare dalla luce di un Altro, o poveri pezzi di carbone che impediscono alla luce di attraversarli e sono destinati solo ad essere bruciati.
Ad una lettura attenta della Parola di Dio, notiamo che Dio è un Dio famigliare, ovvero ama rivelarsi in contesti familiare che a ben vedere non sono mai modelli di «perfezione», anzi! La “prima” di esse conosce immediatamente l’ombra della ferita e dell’accusa reciproca, è fin da subito luogo di povertà esistenziale. Vive al suo interno relazioni fragili. E «primo», in contesto biblico, non ha mai significato cronologico ma piuttosto tipologico: ‘primo’ sta per «fontale», per cui la «prima famiglia» sta ad indicare che sono tutte così. Ogni famiglia partorisce figli «malati»: Caino elimina Abele (cfr. Gn 4, 8), Giacobbe prevale su Esaù con l’inganno (cfr. Gn 27), i figli di Giacobbe odiano Giuseppe sino a venderlo ai mercanti (cfr. Gn 37) e avanti così.

Da tutto questo una domanda: perché tutto ciò che apparve così buono e bello in origine, si guastò così presto? La Bibbia, di fronte al paradiso trasformato in deserto e a una coppia ideale trasformata in covo di vipere, non fornisce risposte. Piuttosto la domanda fondamentale della Scrittura è un’altra: come poter vivere la comunione e l’amore all’interno di queste realtà malate? Il problema non è il perché di tutto ciò, ma come esperire la salvezza in tutto ciò. Come salvarsi in tutto ciò?

E un altro aspetto di cui dovremmo stupirci, è che Dio dinanzi alla fragilità esistenziale esperita dalla sua creatura, risponde con la cura. La prima coppia ferita si scopre nuda e Dio la riveste con cinture di pelli (cfr. Gn 3, 21); a Caino, primo fratricida, Dio pone un segno sulla fronte per proteggerlo dal male che i futuri fanatici dell’integralismo religioso, per i quali vale solo il grido: «Duri e puri», potrebbero scatenargli contro (cfr. Gn 4, 15). A Giacobbe, l’usurpatore, l’imbroglione, Dio concede una discendenza che diverrà fondante per la storia della salvezza. Ebbene, dinanzi al limite, alla fragilità, alla debolezza dell’uomo, Dio manifesta se stesso: si prende cura, fa in modo che gli uomini possano continuare a stare insieme da limitati e segnati dal male, senza ferirsi troppo, così nudi e indifesi.
La salvezza sta nella possibilità di amare e di amarsi nel limite, nel fare delle proprie e altrui ferite occasione di cura e di misericordia.

Il Dio della Rivelazione entra dentro alle storie ferite e fallite, ai nostri piccoli o grandi inferni, per condurre avanti la «sua» storia di salvezza

Il nostro Dio si manifesta in questi contesti esistenziali naturalmente fragili e imperfetti e, come abbiamo visto, non interviene per risolvere i problemi: non si dice che abbia riportato la pace tra Adamo ed Eva, né che abbia guarito la gelosia tra Rachele e Lia, spose dello stesso uomo (cfr. Gn 30), o impedito gli imbrogli di una madre che predilige il suo figlio Giacobbe a Esaù (cfr. Gn 27).

Il Dio della Rivelazione entra dentro alle storie ferite e fallite, ai nostri piccoli o grandi inferni, per condurre avanti la «sua» storia di salvezza.
Mi torna in mente a proposito, una bella citazione di Italo CALVINO ne Le città invisibili:

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà. Se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti. Accettare l’inferno e farne parte, fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi o che cosa in mezzo all’inferno non è inferno e farlo durare, e dargli spazio

Ecco, Dio opera questo.
Una storia di salvezza nella quale Dio utilizza un materiale che per gli uomini sarà sempre di scarto, mentre ai suoi occhi è prezioso e indispensabile, per quanto possa essere segnato dal limite (cfr. 1 Cor 1, 28).
Il nostro è un Dio che interviene senza risolvere, perché curare è più che guarire.
Il nostro Dio non è un mago, che cambia trasformandola, la realtà, ma un Padre che non può far altro che amare i suoi figli.

Il Dio che ci si fa incontro mette in moto le potenzialità di ciascuna creatura perché possa dare in ogni situazione, per quanto ferita e fallimentare, il meglio di sé.

Se ci lasciassimo raggiungere dalla Rivelazione di Dio, se imparassimo finalmente a mettere al centro la sua Parola, ci riconcilieremmo con le parti più indegne di noi, con Dio e con gli altri, cessando finalmente di sentirci inadeguati.
Il nostro è un Dio che entra nella storia e la risolleva dall’interno, assumendola tutta, così com’è, e permettendo ad essa di fare la sua strada. Potremmo riassumere così: Dio opera nell’uomo che opera. Dio è all’interno della nostra storia, non dirigendola come un burattinaio dall’esterno, ma assicurandole l’attracco in un porto sicuro attraverso percorsi insondabili del folle cuore umano.
«Se pure corressi per mari stranieri, tornerò sempre, Signore, a far naufragio nel tuo» (M. POMILIO, Natale del 1833). Anche se fragili, finiti e imperfetti la nostra storia sta andando verso un porto di bene.

La salvezza dunque non sarà giungere a non peccare più, o scoprirsi un giorno senza limiti, senza fragilità, non più feriti, ma sarà rimanere con la bocca aperta come i bambini – questo si chiama stupore – dinanzi a un Dio che ci ama e ci ha raggiunto nella nostra fragilità. È qui che si realizzerà il passaggio dalla religione alla fede. La religione è intenta a voler raggiungere Dio con una vita irreprensibile, la fede è accorgersi di un Dio che opera e si rivela nella nostra storia ferita.

Nella Scrittura: fragilità e debolezza

Se interroghiamo la Scrittura, constatiamo che vi è come un filo rosso, il quale indica che l’unica via per vivere in pienezza è quella della fragilità e della debolezza.
Gesù, compreso che questa via è l’unica salvifica, perché l’unica nella quale Dio può rivelarsi, è esploso in un inno di gratitudine e di gioia nei confronti di suo Padre che ha scelto questa modalità folle:

In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza” (Lc 10, 21)

È la logica vissuta da Gesù, che è la rivelazione del Padre, e va da sé che i suoi discepoli sono chiamati a percorrere la stessa strada come unica possibilità di compimento. Se Dio è onnipotente solo nella sua impotenza – misterioso ossimoro – nella sua fragilità, il discepolo si compirà come persona attraverso la medesima modalità.
È la logica della pietra, che diventa testata d’angolo quando viene scartata (cfr. Mt 21, 42 che cita il Salmo 118, 22): dell’agnello che diventa il vincitore perché immolato (cfr. Ap 5, 12); del chicco di grano che produce frutto soltanto perché muore (cfr. Gv 12, 24). La fecondità scaturisce sempre da un’apparente infecondità. Ma agli occhi del mondo questo pare essere scandalo e follia (cfr. 1 Cor 1, 23).

In Genesi: il vincitore Giacobbe

Genesi racconta al capitolo 34, che Giacobbe nella sua lotta notturna, sulle rive dello Jabbok, con Dio esce vincitore, ma rimane claudicante. Giacobbe ha passato la vita a fuggire dal fratello Esaù per paura che quest’ultimo lo scovasse uccidendolo, per ciò che Giacobbe gli fece sottraendogli con l’inganno la primogenitura. In precedenza Giacobbe cercò di conquistare il perdono del fratello con ricchezze inestimabili. Ma non servì a nulla. Appena sorta l’aurora, subito dopo la lotta con l’angelo, Giacobbe vede Esaù venirgli incontro, e pensa di non avere più scampo. Esaù si avvicina e vede Giacobbe zoppicante. Questa visione del fratello fragile e ferito lo commuove: invece di ucciderlo, gli getta le braccia al collo e piangono assieme (Gn 33, 1-4). Lo perdona. Tutto ciò che Giacobbe voleva raggiungere con la sua forza, si realizza nell’insuccesso. Quante volte nella nostra vita esperiamo un successo proprio perché «non siamo riusciti»? Quante volte constatiamo che una fecondità scaturisce proprio da un fallimento?
«A volte l’unico modo per vincere è arrendersi» (Richard BACH, Il libro ritrovato).

Nel libro dei Giudici: il minuscolo esercito di Gedeone

Un altro personaggio importante è il profeta Gedeone, la cui storia è narrata del libro dei Giudici (capp. 6-8). Gedeone è l’ultimo della sua famiglia, e la sua famiglia è l’ultima del suo paese; già questo la dice lunga. Non ha una posizione sociale, non è nessuno. È un uomo senza pretese. Non ha nulla da vantare, nessuna dote. È povero. Però viene investito da Dio di un’impresa, cioè di una vocazione: liberare il popolo dai Madianiti.
Dio non dice: «Va’ con la mia forza», ma: «Va’ con questa tua forza» (6, 14). È bellissima questa espressione. Mentre Gedeone muove dalla consapevolezza della propria debolezza, Dio mette Gedeone di fronte alla realtà della sua propria forza. Ciascuno, per quanto fragile e debole, ha qualcosa in sé su cui Dio sta scommettendo. Nessuno è così povero da non poter agire in modo vittorioso sul mondo. Dio opera nella nostra opera. Non si sostituisce a noi; ha un immenso rispetto della nostra libertà.
Dio ci dice di andare con quello che siamo. Molte volte, nella nostra esistenza, pensiamo che se fossimo un po’ diversi, se avessimo un’altra intelligenza, un’altra prestanza fisica, se avessimo avuto un’altra storia, magari altri genitori, allora sì che potremmo…
Dio invece gioca su quello che siamo adesso, in questo momento. Interviene sempre nella nostra concreta situazione: dove regnano la desolazione, le paure, i dubbi paralizzanti, le divisioni nel cuore e quelle tra le persone.
Dio non ci trasforma la vita dal di fuori, ma sta con noi e così fa emergere tutte le nostre potenzialità assopite, dicendoci che valiamo per quello che siamo.
Prima che Gedeone scenda in battaglia, Dio gli si rivela dicendogli che, per vincere i Madianiti, trentaduemila uomini sono troppi, e gli chiede di ridurre il suo esercito. Dopo alcune selezioni, alla fine rimangono trecento uomini. Ebbene, Dio dice:

Con questi trecento uomini, io vi salverò e consegnerò i Madianiti nelle tue mani. Tutto il resto della gente se ne vada, ognuno a casa sua  (cfr. Gdc 7, 2-8)

È sconcertante, come lo è anche il modo in cui Gedeone consegue la sua vittoria:

Divise i trecento uomini in tre schiere, mise in mano a tutti corni e brocche vuote con dentro fiaccole» (Gdc 7,16)

Con queste «armi» – corni e brocche vuote illuminate – il minuscolo esercito di Gedeone circonda l’accampamento nemico; il gran chiasso e le grida guerriere fanno sì che i nemici, presi dal panico, tentando di fuggire si lancino in un drammatico annientamento reciproco, quasi un suicidio collettivo.

Ricordiamo le parole del salmo: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Salmo 119, 105). Le fiaccole sono figura della Parola di Dio, come tutto questo passo biblico è una figura simbolica per dirci che la nostra storia cristiana deve entrare nel territorio nemico – cioè deve fare i conti col nemico interiore, il male –, nel nome di Dio. Perché per quanto la tenebra sia fitta, non potrà mai spegnere una fiamma, anche se piccola.

Se in una stanza totalmente buia facciamo entrare la fiammella di una piccola lampada, la tenebra non potrà annullarla, e quella fiamma piccina illuminerà la stanza. È sempre il bene a vincere! La Parola di Dio ci rivela che il Bene c’è, e che prima noi lo possiamo raggiungere esso ci ha già raggiunti unendosi a noi. Un Bene che ha talmente la passione dell’uomo da morire per lui. Un amore bello, perché la bellezza è il nome dell’amore quando si manifesta. Un amore rivelatosi sul legno della croce, e dalla cui altezza vertiginosa ci sentiamo finalmente amati, e in quel preciso istante, tutti i nostri nemici interiori si sgretolano, scompaiono. A volte il male pare avere la meglio su di noi e rimaniamo a terra, frantumati. Ma perdere non vuol dire ancora essere sconfitti, e questo perché il bene, vince sempre. Anzi, essendo l’amore più grande, vince anche quando perde.

Questa è la nostra certezza e la nostra speranza. Anche se conosciamo il male, la fragilità, il limite e tutto ciò pare vincere, il bene che ci abita, è vittorioso, perché l’amore non può morire.

Dio non si vergogna della bassezza dell’uomo, vi entra dentro, sceglie una creatura umana come suo strumento e compie meraviglie lì dove uno meno se le aspetta. Dio è vicino alla bassezza, ama ciò che è perduto, ciò che non è considerato, l’insignificante, ciò che è emarginato, debole e affranto; dove gli uomini dicono “perduto”, lì egli dice “salvato”; dove gli uomini dicono “no!”, lì egli dice “sì”! Dove gli uomini distolgono con indifferenza o altezzosamente il loro sguardo, lì egli posa il suo sguardo pieno di un amore ardente incomparabile. […] Dove nella nostra vita siamo finiti in una situazione in cui possiamo solo vergognarci davanti a noi stessi e davanti a Dio, dove pensiamo che anche Dio dovrebbe adesso vergognarsi di noi, dove ci sentiamo lontani da Dio come mai nella vita, lì egli vuole irrompere nella nostra vita, lì ci fa sentire il suo approssimarsi, affinché comprendiamo il miracolo del suo amore, della sua vicinanza e della sua grazia» («Sermone della 3ª domenica di Avvento», in D. BONHOEFFER, Riconoscere Dio al centro della vita, Queriniana, Brescia 2004)

Concludo, augurando ad ogni cuore, di raggiungere la perfezione vera, ovvero quella maturità che consiste nel riconoscere che ciò che fa un uomo persona, non è l’essere forte, potente e senza limiti, ma bensì un semplice ricettacolo che

accoglie ogni creatura con amore, per orientarla con la sua parola, la sua preghiera, la sua poesia, verso la misteriosa sorgente da cui fluisce. Sorgente che qualcuno ha imparato a chiamare Dio (Fabrice HDJADJ)

© Bioetica News Torino, Dicembre 2013 - Riproduzione Vietata