Intervento di Giovanni Zanetti al Convegno Sviluppo sostenibile e “green economy”: tra luci e ombre, tenutosi on line il 17 settembre 2022, organizzato dal Centro Cattolico di Bioetica – Arcidiocesi di Torino, con la moderazione del Prof. Luca Battaglini, Ordinario di Scienze e tecnologie animali – Università degli Studi di Torino (per gentile concessione Centro Cattolico di Bioetica, video a cura di P. Pena)
Premetto la mia condivisione delle scelte e dell’impegno conseguente verso l’obiettivo di riconvertire l’organizzazione dell’apparato produttivo nell’intento di renderlo il più possibile armonico con la conservazione dell’ambiente del pianeta in cui viviamo, con tutte le sue valenze e potenzialità. Intendo però, al tempo stesso, l’esigenza di acquisire la consapevolezza dei tempi, degli ostacoli e dei limiti entro i quali è possibile muoversi per evitare che il fascino della finalità induca, come troppo spesso avviene, a trascurare la complessa problematica del mettere a terra le speranze, con il rischio di lasciarle tra le finalità irrealizzate.
Una panoramica delle problematiche esistenti
In questa prospettiva e con questo spirito mi pare in primo luogo essenziale prendere coscienza dell’entità della problematica di fronte alla quale ci si trova. Trattandosi infatti di operare per rimediare alle ricadute del surriscaldamento sull’intero pianeta, la tematica trascende l’ambito di ogni singola nazione, per interessare quello internazionale. Di conseguenza, entrano in gioco: le realtà esistenziali di tutte le parti del mondo; le diverse gestioni politiche di ciascuna di esse a fronte di situazioni specifiche non facilmente o per nulla generalizzabili; l’eterogeneità della percezione della problematica e quindi delle linee perseguibili per uscirne (se non della stessa opportunità del farlo nel breve o medio termine, tenuto conto dei gradi di incertezza tuttora gravanti sulla complessa materia).
Esistono nel mondo Paesi per i quali il benessere attuale o sperato per il loro futuro, si basa proprio su modelli di vita fondati sull’utilizzazione di quelle risorse naturali ora giudicate in netto contrasto con i processi produttivi proponibili per fermare i gravi fenomeni all’origine del surriscaldamento ambientale. Non si tratta solo di visioni egoistiche, pur esistenti, ma spesso di veri stati di bisogno dei quali si intravvede la soluzione, nella possibilità concreta di abbracciare proprio quei modi di fabbricare e di produrre oggi sperabilmente superabili, ma fino a ieri utilizzati da economie divenute forti e agiate raggiungendo così la crescita e il progresso sociale. Dinnanzi a queste evidenze divengono comprensibili, pur non condividendole, diverse potenziali reazioni di ostacolo agli auspicati cambiamenti, cause non secondarie di ritardi nel realizzare l’auspicato processo di riconversione.
D’altra parte l’esistenza di queste disarmonie deve incentivare ad intervenire sia per contribuire a rimuovere gli stati di bisogno dai quali dette reazioni nascono, sia per procedere favorendo una formazione adeguata (ad esempio tramite l’utilizzo dei fondi PNRR).
In ultima analisi va compreso e attentamente valutata l’impossibilità di agire, ognuno nel proprio limitato contesto: uno studio recente della rivista Energia (2/ 2021) ha posto in evidenza come, in assenza di un comune impegno concreto da parte dei maggiori emettitori di CO2 (Cina 28%, Stati Uniti 15%, India 7%), gli sforzi per comprimere le emissioni italiane (1%) per quanto meritori, sarebbero del tutto insignificanti. Se infatti fossimo così bravi da ridurle del 55% entro il 2030, come richiesto dall’Unione Europea, contribuiremmo a ridurre quelle globali nella misura dello 0.005%. L’Italia godrebbe di indubbi benefici in termini di salute ma il pianeta, nel suo complesso, non ne risentirebbe affatto.
Entrando più in profondità sul modello da riconvertire, occorre percepire correttamente l’enorme evoluzione che, nel bene e nel male, ha caratterizzato il cambiamento del modo di produrre a fronte della crescita imponente di una domanda mondiale di beni e servizi. Essa, in termini concreti, si è risolta nella formazione, su scala internazionale, di uno sconfinato sistema produttivo globalizzato, strutturato a rete, certo portatore certamente di grandi vantaggi in quantità, qualità e benessere ma, al tempo stesso, di distorsioni non meno evidenti, soprattutto nella loro distribuzione, essenzialmente riconducibili ad errori di governo nel monitorare le ricadute sul piano sociale.
La complessità della situazione venutasi a formare rende quindi molto difficoltosa la necessaria e auspicabile transizione chiamando in causa convinzioni, valori da condividere, eterogeneità di conoscenze tecnologiche, di interessi e vantaggi consolidati nel tempo.
Oggetto di osservazione e di contestazione sotto il profilo delle ricadute ambientali è il diramare dell’attività costruttiva in una pluralità numerosissima di comparti (da quello agricolo, a quelli dei servizi, dell’artigianato e dell’industria vera e propria). Ciascuno di questi è, a sua volta, articolato in una molteplicità di settori, diversificati per grado di complessità. Ne risulta un apparato produttivo costituito da innumerevoli punti operativi, sparsi in diverse parti del mondo, di fatto necessitati ad essere collegati tra di loro.
Il continuo progredire della tecnologia e dei criteri organizzativi ha consentito a quell’apparato di produrre beni e servizi sempre più sofisticati destinati a consumi intermedi o finali. Ciascuno di questi, ad un’analisi, risulta essere un aggregato di particolari diversi, ognuno derivante da specifici processi produttivi, dai più semplici ai più complicati, assemblati infine nell’oggetto destinatario di domanda. Si tratta di fatto di reti di fornitura nelle quali i singoli nodi sono, non sempre ma di frequente, frutto di lavorazioni avanzate anche ad elevato livello di specializzazione, tanto da rendere i singoli soggetti in esse impegnati, indispensabili all’esito adeguato del bene finale.
Nel sistema complesso che ne risulta, emergono pertanto punti operativi specifici (suscettibili di divenire punti di potere) obbligati a trovare equilibrio, in termini di qualità e di prezzi, con altri punti a monte o valle, costretti ad avvalersi del loro impegno nella fabbricazione del particolare per loro irrinunciabile. Un piccolo esempio può aiutare a capire: se ognuno di noi si accingesse a smontare molti dei beni usati abitualmente da cittadino e da lavoratore, (dal cellulare all’automobile) resterebbe sbalordito dal numero di componenti, dalla qualità elevata dei medesimi e dal numero dei paesi implicati nella loro provenienza.
Il mondo produttivo è oggi una realtà estremamente complessa, resa tale da una domanda pressoché insaziabile nella sua richiesta di validità e capacità di resa di servizio dei beni desiderati. In tanta complessità, dalla quale sono derivati importanti successi tanto in quantità quanto in produttività, è maturata altrettanta fragilità: basta infatti l’insufficienza di un nodo della rete o il suo venir meno per scelta o per necessità, per determinare il fallimento dell’insieme. Il carattere sistemico globale dell’apparato produttivo deve quindi essere tenuto ben presente, soprattutto di fronte alla scelta o all’esigenza di apportarvi modifiche.
Il ruolo della solidarietà e cooperazione
In tale prospettiva, più l’indagine viene approfondita, più viene in evidenza la necessità che a dover cambiare non è tanto un astratto modello economico (ma quale poi e in quale direzione?) o un magico apporto tecnologico risolutivo, ma piuttosto la maturazione consapevole e condivisa dell’animo umano verso ipotesi solidaristiche e cooperative.
È necessario aver ben presente che, in qualsiasi parte del mondo e sotto ogni cielo, ogni collettività, per esistere, deve rispondere concretamente a tre noti quesiti: cosa produrre (il premio Nobel per l’economia Paul Samuelson poneva la celebre indicativa dicotomia “burro o cannoni”)? Come produrre (macchine o lavoro umano)? Per chi produrre (come distribuire il prodotto)? In questo senso i documenti papali in termini di indicazione di valori e dei principi ispiratori di nuovi comportamenti sono certamente una guida preziosa per sciogliere concretamente queste domande.
Quale sarà l’impatto del passaggio alle fonti energetiche rinnovabili?
In questo contesto, la risposta, deve fare i conti con il ruolo dominante dell’energia, vero circuito generale di vita di ogni apparato economico-produttivo, obbligato a confrontarsi con l’eterogeneità della distribuzione delle risorse naturali nel mondo e con il conseguente sfruttamento delle stesse in termini di potere, non solo economico (l’attuale esperienza del gas metano lo sta dimostrando). L’analisi, com’è ormai noto, investe pienamente l’utilizzazione ancora largamente estesa nel mondo delle fonti fossili (carbone, petrolio, gas naturale) e la necessità di uscirne per ridurne le ricadute nocive, fino ad eliminarle.
Il problema non è di poco momento sia per quanto s’è detto in apertura a proposito delle scelte diverse dei diversi Paesi, connesse alla disponibilità prossima di dette fonti, alle opzioni tecnologiche dalle stesse comportate con i relativi pesantissimi investimenti, ai gradi di benessere goduti nel tempo e tuttora presenti; sia per la necessità di adottare nuovi processi produttivi, con la perdita di esistenti autonomie, assieme all’esigenza di destinare ampie risorse finanziarie sottraendole ad altri impieghi già programmati.
La stessa soluzione, sostanzialmente sposata a livello generale, del ricorso alle fonti rinnovabili in forza della loro infinita abbondanza e della loro gratuità (vento, sole, maree) deve fare i conti con gli enormi investimenti, le ricadute economico-sociali dell’abbandono di interi sistemi produttivi (l’auto elettrica ne è un caso), gli oneri diretti per la loro posa in essere, gestione e smantellamento per fine vita.
Allo stesso modo non può esimersi dal considerare la discontinuità degli apporti (calore del sole, frequenza e intensità del vento) caratterizzante tali risorse nella realtà concreta, tali da obbligare a dare soluzione in termini accettabili ai problemi dell’accumulo (vincolandosi a nuove dipendenze) senza il quale, la loro validità può venir meno fino ad annullarsi.
Conclusione
Tenuto conto dei tanti aspetti, la riflessione non tarda ad imporre una sana riflessione a favore di una transizione graduale, tale da non gettare alle ortiche quanto di valido esiste, graduandone l’utilizzazione nel tempo sì da consentire un cambiamento veramente condiviso attuabile mediante innovazioni tecnologiche al momento ignote, ma fondate su sperimentazioni a livello particolare, passibili di superare la fase di laboratorio per divenire concrete.
S’impone inoltre una politica di adattamento, stante la lunghezza del periodo di transizione, valutabile in qualche decennio, nel corso della quale, valide le premesse, la temperatura continuerà ad essere elevata. Deve inoltre essere tenuta presente l’impossibilità di una reversibilità completa dei fenomeni in atto: gli ambiziosi obiettivi espressi a livello internazionale (eliminazione della produzione di CO2 entro il 2050) garantirebbero infatti il contenimento della crescita della temperatura (dal 1990) nei 2 gradi o 1,5; non il suo azzeramento.
Neppure a cambiamenti compiuti rivedremmo quindi le perdute abbondanti nevicate o la riformazione degli affascinanti ghiacciai, almeno al disotto dei 3000 mt.
© Bioetica News Torino, Ottobre 2022 - Riproduzione Vietata