In milioni di anni l’evoluzione ha condotto alla definizione di percorsi atti a sostenere e trasmettere la vita, e in particolare la vita umana, che consentano il massimo di efficienza e salute al corpo umano, “macchina” praticamente quasi perfetta. Macchina che mostra aspetti che possono apparire di fragilità ma che invece possono essere interpretati alla luce di recenti evidenze scientifiche come tutela del livello di qualità necessario alla specie. La sterilità appare essere uno di questi aspetti.
Anziché essere considerata malattia dovrebbe essere interpretata nel suo reale significato evolutivo di protezione della salute della specie, intesa come tutela della massima competenza di qualità di prestazioni. L’operare per superare ostacoli evolutivamente impostati alla riproduzione si traduce sovente non nel superamento di uno stato di malattia ma nella propagazione a livello di individui e di società di maggiori fragilità di salute, con conseguenze a lungo termine che incominciano ormai ad apparire nella loro gravità. Il che contrasta fortemente con l’affermazione a livello sociale della tutela della salute e con l’asserita sensibilità ecologica attuale. L’articolo evidenzia succintamente i dati scientifici a supporto della necessità di approfondire le conoscenze prima di modificare, senza sapere neanche intuire le conseguenze, l’impianto genetico ed epigenetico evolutivamente impostato.
Convegno «Ecologia integrale e salute»
Torino, 18 giugno 20161
A lungo ci siamo incantati davanti alla scoperta del nostro codice genetico e abbiamo pensato di avere srotolato la vita alla luce dell’insieme dei nostri geni (genoma). Ora sappiamo che i nostri geni non sono tutto, molto più importanti sono i meccanismi che ne condizionano la funzione. I nostri geni possono essere attivati ed espressi oppure essere spenti e repressi e l’accensione/spegnimento di un gene dipende da molteplici interferenze di molteplici fattori, ad esempio dall’età del soggetto, dal tempo di applicazione di uno stimolo, dai diversi tessuti e organi. La scienza che si occupa dei meccanismi di accensione/spegnimento dei geni si chiama epigenetica (al di sopra della genetica) ed epigenoma è l’insieme di tali meccanismi.
Sia la possibilità di una mutazione genetica, che trasmetta a lungo tempo caratteristiche di migliori prestazioni in un dato ambiente, sia la competenza di una adattabilità a breve termine di fronte a condizioni repentinamente insorte sono fondamentali per l’adeguatezza di prestazioni che viene richiesta alla specie, come anche al singolo individuo. La prima possibilità di adattamento è assicurata da mutazioni genetiche che si instaurano in una popolazione molto lentamente (centinaia di migliaia di anni), la seconda invece da meccanismi epigenetici che cambiano una popolazione in pochi decenni.
In effetti ciò che i nostri nonni e i nostri genitori mangiavano, quanta attività fisica facevano, a quali sostanze chimiche sono stati esposti sono alcuni dei fattori che influenzano il funzionamento del nostro corpo. In particolare ha molta rilevanza, anche al fine della fertilità, ciò che la nostra mamma mangiava prima e durante la nostra gravidanza.
Fecondazione: un lungo viaggio conflittuale dei gameti alla ricerca della qualità
Fatta questa fondamentale introduzione, veniamo ora a come può insorgere una gravidanza. Evolutivamente una gravidanza, e in particolare una gravidanza a termine con un neonato in buona salute, esprime il lungo viaggio dei gameti (cellula uovo femminile o oocita e cellule germinali maschili o spermatozoi) alla ricerca della qualità.
L’incontro e fusione dei gameti femminile e maschile deve assicurare la migliore adeguatezza possibile della prole per la prosecuzione della specie in condizioni di salute relativamente all’ambiente di vita. Per raggiungere questo scopo di qualità lo spermatozoo deve sopravvivere, evadendo la reazione immune della femmina (lo spermatozoo è estraneo al corpo femminile e già così viene inizialmente selezionato), risalire fino al luogo della fecondazione mantenendo la capacità fecondante e l’integrità del suo DNA, cioè l’adeguatezza del suo genoma e epigenoma. L’oocita pure deve avere genoma ed epigenoma corretto per essere fecondato con efficienza e inoltre deve possedere meccanismi per difendersi da sperma incompatibile al fine di una ottimale prestazione riproduttiva della specie.
Genoma ed epigenoma corretto sia per lo spermatozoo fecondante che per l’oocita fecondabile sono caratteristiche indispensabili alla tutela della salute della prole e quindi della specie, così come evolutivamente determinata.
L’evoluzione ha infatti sviluppato meccanismi di protezione dell’integrità della nostra specie molto sofisticati, meccanismi che sono applicati già a partire dai gameti e che si manifestano poi appieno in sequenza nell’embrione nel feto nel neonato e quindi nell’adulto.
Una riproduzione con gameti per nulla o poco adeguati, evolutivamente parlando, esita necessariamente in persistenza di sterilità, aborto o in malattia del nato. Tale sistema a protezione dell’integrità della specie si esplica, ovviamente con qualche residua possibilità di errore, anche attraverso la programmazione dell’impostazione epigenetica.
Per programmazione epigenetica si intende la risposta impostata da un organismo a uno stimolo o a un insulto insorto durante un periodo critico di sviluppo, risposta attuata mediante modificazioni dei molteplici meccanismi epigenetici applicati sui geni, in particolare quindi quelli dei gameti e dell’embrione durante il processo riproduttivo. Un certo livello di plasticità epigenetica, cioè la possibilità di mutare alcune istruzioni epigenetiche di accensione/spegnimento del DNA, continua per tutta la vita e un marcatore epigenetico che si possa rivelare dannoso può verosimilmente essere inibito (ad esempio attraverso la dieta), ma il timing di un insulto è strategico, in quanto un’alterazione epigenetica che avvenga durante lo sviluppo embrionale avrà un impatto molto maggiore sulla condizione epigenetica globale, dato che continuerà ad essere trasmessa lungo le ripetute successive divisioni cellulari a tutti i diversi tipi di cellule sia staminali − quelle che servono a rigenerare i vari tessuti−, somatiche − quelle che costituiscono il nostro intero corpo− e germinali − quelle deputate alla riproduzione− (Barker e Clark, 1997). L’adattamento epigenetico che interviene in risposta a segnali esterni durante le fasi di maturazione dell’oocita e in seguito di fertilizzazione e sviluppo dell’embrione sarà generalmente irreversibile per l’organismo, oltre a condizionare anche le cellule germinali (Kwong et al., 2000).
Alla fine degli anni ’90 l’epidemiologo David Barker suggerì di non focalizzarsi negli studi sugli embrioni umani nel campo della fertilizzazione in vitro (IVF) solo sui meccanismi intrinseci di sviluppo dell’embrione (cioè sul suo patrimonio genetico), ma di valutare tutto alla luce della modulazione da parte di fattori estrinseci che avrebbero potuto avere un maggior impatto sul potenziale di salute a lungo termine, vale a dire iniziare a prendere in considerazione anche la sensibilità dell’embrione in vitro alla programmazione epigenetica del suo sviluppo (Fleming, Velazquez e Eckert, 2015). Poiché i processi di sviluppo avvengono secondo una definita sequenza a partire dai gameti, in particolare dagli oociti, e quindi dalle prime cellule embrionali, tutto ciò che interferisce con uno sviluppo preordinato iniziale può alterare la traiettoria di crescita futura.
Data la necessità di espressione di geni altamente coordinata e regolata in risposta a segnali estrinseci, le condizioni per la competenza dell’oocita a essere fecondato con efficienza, dunque esitare in un embrione vitale, si determinano già nel corso della sua maturazione e ovviamente comportano processi di tipo epigenetico (Tomizawa, 2012; Imbar e Eisenberg, 2014). Tanto è vero che già nel liquido presente intorno all’oocita si riscontrano i presupposti delle successive anomalie dell’embrione dovute a malnutrizione materna, in eccesso come in difetto (Velasquez, 2015).
La correttezza del processo di maturazione deve essere infatti assicurata da fattori già presenti nell’oocita, fattori che possono essere perturbati da ogni condizione avversa che alteri il normale programma evolutivo dell’oocita in maturazione. Condizioni avverse sono costituite da uno stato nutrizionale materno inadeguato, da interferenti endocrini e inquinanti, ma anche da tecniche di riproduzione assistita (Tomizawa et al., 2012).
Sappiamo che una dieta squilibrata in macronutrienti rispetto alla spesa energetica, ma anche in micronutrienti, sia nell’uomo che nella donna ha effetti a lungo termine sulla salute della prole, mentre l’esposizione prenatale a alimenti protettivi, ad esempio antiossidanti nella dieta, risulta in minor danno ossidativo e in seguito in minor rischio di degenerazione tumorale da adulti.
Se c’è uno squilibrio nutrizionale, anche in eccesso di costituenti peraltro essenziali, questo può tradursi in danno tanto più se accompagnato da carenza dei micronutrienti necessari per utilizzare correttamente l’elemento essenziale (Godfrey, 2002; Vanhees et al., 2014).
Stabilito che un apporto nutrizionale adeguato prima e durante una gravidanza è essenziale per permettere una gravidanza e un normale sviluppo del feto con una regolare impostazione dei circuiti cerebrali a livello neurocomportamentale, ricevono a questo riguardo le donne un’adeguata informazione? Una revisione della letteratura ha evidenziato che generalmente le donne non ricevono adeguati consigli nutrizionali, che gli operatori sanitari ne percepiscono il valore, ma non possono fornirli per mancanza di tempo, per mancanza di risorse e mancanza di training adeguati (Lucas et al.,2014). Dunque siamo ancora ben lontani da un approccio di prevenzione a livello di società ai fini della tutela di una buona salute. A partire dai gameti e dalle prime fasi di sviluppo dell’embrione sono dunque sempre eventi di tipo epigenetico a modificare il potenziale di sviluppo successivo, in particolare quelli che coinvolgono particolari geni (detti imprinted) coinvolti nella crescita, ma non solo (Fleming et al., 2015).
Le conseguenze a livello delle caratteristiche dei nati sono potenzialmente molto ampie, ma ben poco conosciute; conosciamo ad esempio il rischio correlato al basso peso alla nascita. Oltre che per la crescita e per il rischio cardiovascolare e dismetabolico (Thompson e Regnault, 2011; Lakshmy, 2013), un basso peso alla nascita correlato a condizioni ambientali embrionali può costituire fattore di rischio per l’insorgenza di disturbi neurologici, quali depressione, disturbi comportamentali, autismo etc. (Fleming et al., 2004). Nel mondo si stima il 9,55% dei nati a termine sia di basso peso e l’1,2% di peso molto basso, la maggior parte in Paesi in via di sviluppo (UNICEF e WHO, Report 2004). In realtà nel mondo occidentale i nati sottopeso (circa il 7%) continuano ad aumentare, soprattutto per le gravidanze in età avanzata non solo della madre ma anche del padre (Sharma et al., 2015) e da Procreazione Medicalmente Assistita (PMA), gravidanze che, come vedremo, sovente comportano inadeguata placentazione.
Sarebbe dunque necessario individuare i migliori interventi terapeutici prima e durante le gravidanze per prevenire il danno dismetabolico insito nel basso peso alla nascita nelle future generazioni, proprio perché l’ambiente prenatale influenza la salute successiva e il peso alla nascita è un indice di salute in gravidanza in quanto indice di disponibilità di nutrienti per il feto e in particolare di adeguatezza della placenta. Assicurare un’ottima placentazione offre dunque un nuovo approccio alla prevenzione di patologie quali le malattie cardiovascolari, il diabete e l’obesità che ora raggiungono proporzioni endemiche (Burton et al., 2016).
La placenta è stata un “nostro” organo, potrebbe essere considerata il più importante organo del nostro corpo, non solo di quando eravamo feti, ma certamente è il meno conosciuto, poiché è un organo posto al di fuori del nostro corpo e poiché la sua funzione è breve. Il suo compito è fornirci nutrimento, ossigeno e difesa. Ha una struttura funzionale a questo compito, influenza anche l’utero e la madre a rispondere efficientemente al suo compito e svolge un ruolo di protezione della salute del feto nell’immediato e a lungo termine. La sua più importante funzione è quella di assicurarci lo sviluppo di un grande cervello, ma ciò avviene al costo di una qualche possibilità di insorgenza di complicanze, non presenti in animali inferiori, quali la preeclampsia − ipertensione, edemi, proteinuria in gravidanza − e l’eclampsia − complicanza della preeclampsia con convulsioni epilettiche − (Burton e Fowden, 2015).
L’invasività della placenta nell’utero materno, al fine dell’apporto di nutrimento che consenta lo sviluppo dell’embrione e del feto, inizia con l’invasione del trofoblasto (le cellule dell’embrione specializzate nel prendere contatto con la madre) con conseguente rimodellamento delle arterie spirali materne all’interno della parete dell’utero per assicurare l’adeguato apporto sanguigno: se questo non è adeguato alle necessità dell’embrione insorge più tardi pre-eclampsia. L’inadeguatezza può insorgere per interazioni genetiche scorrette tra gli antigeni dell’embrione, che per la madre costituisce un vero e proprio trapianto, e le cellule materne, mediate da modificazioni epigenetiche correlate alla crescita placentare e cerebrale. Tale crescita è regolata da particolari geni normalmente co-espressi in modo sincrono ai due livelli (Keverne et al., 2015), il che ri-sottolinea la stretta correlazione tra funzionamento placentare e sviluppo cerebrale.
Si sa che vi è una comunicazione dinamica e nelle due direzioni tra madre e embrione, effettuata tramite microvescicole fornite di membrana cellulare che contengono proteine e informazioni genetiche ed epigenetiche e ciò avviene fin dai primi stadi ben prima dell’impianto in utero dell’embrione, al fine di assicurare l’immunotolleranza dell’embrione (Saadeldin et al., 2015). Infatti non solo lo spermatozoo, anche l’embrione deve evadere la risposta immune materna.
Per quanto riguarda la preeclampsia, questa può essere definita come anomala modulazione epigenetica del trofoblasto, cioè come conseguenza di blocco o di attivazione di geni chiave per l’invasività da parte del trofoblasto delle piccole arterie uterine della madre e la sua repressione − solo le piccole arterie spirali devono essere adeguatamente invase, senza un maggiore approfondimento − (Blair et al., 2013; Hogg et al., 2013; White et al., 2013; Jia et al., 2012; Yuen et al., 2010). Se insorge un difettoso rimodellamento delle arteriole spirali limitato alla decidua superficiale, mentre quelle del segmento muscolare dell’utero non si dilatano, l’ipertensione della madre è una conseguenza indotta dal feto al fine della propria sopravvivenza, con un adattamento funzionale alle sue necessità di nutrimento e ossigenazione, pur ridotte (Yan et al., 2013).
Fertilizzazione in vitro (IVF)
A questo punto perché parlare di fertilizzazione in vitro (IVF) trattando di ecologia della nascita? Perché l’ambiente pre e peri-concezionale è molto diverso tra natura e IVF e questo diverso ambiente diversamente condiziona il prodotto del concepimento, cioè l’embrione quindi il feto e il nato, ma anche la madre in gravidanza e dopo. Applicando l’IVF, alterazioni epigenetiche sottostanti alla maturazione dell’oocita e dello spermatozoo, si tratta non per nulla di pazienti sterili, eventualmente anche per condizioni temporanee, possono condizionare l’epigenoma dell’embrione e in seguito della placenta e del feto, sia in vivo che a maggior ragione in vitro (de Waal et al., 2014; Reynolds et al., 2015), particolarmente se si applica la tecnica ICSI (iniezione intracitoplasmatica di spermatozoo), che comporta l’introduzione meccanica di uno spermatozoo, più o meno scelto a caso, nell’oocita (Lou et al., 2014).
Vi è infatti un maggior rischio di complicanze e di preeclampsia in gravidanze da IVF (Zhu et al., 2016), particolarmente se con ICSI (Ulkumen et al., 2014). L’aumento di rischio di preeclampsia/eclampsia è dal 42% all’83% (Martin et al., 2016) e gravidanze ad alto rischio si presentano soprattutto in caso di PMA dopo ricorso a crioconservazione di embrioni (Opdahl et al., 2015; Qin et al., 2016). Per altre malattie, oltre alla preclampsia, la rilevanza delle modificazioni epigenetiche richiederà ancora decenni per poter essere valutata (Saffery e Novakovic, 2014).
Come detto, le gravidanze da PMA non sono regolari gravidanze, ma mostrano evidenti alterazioni della traiettoria di crescita intrauterina e di funzione placentare che dipendono anche da condizioni in coltura, tipi di terreno, stadio del transfer dell’embrione (a 2 o 3 o 5 giorni dalla fecondazione), micromanipolazioni, etc. Il peso alla nascita non è neanche un indice attendibile di benessere fetale, il peso a seconda della metodica utilizzata può essere basso, ma anche troppo elevato, come in caso di trasferimento di embrioni dopo crioconservazione (Korosec et al., 2016) ed inoltre maggiori manipolazioni dell’embrione si traducono in curve di crescita fetale sempre più deviate (Bloise et al., 2014).
Una precauzione minima in IVF comporterebbe almeno di limitare le manipolazioni (Fleming, 2004; Bloise et al., 2014). Le manipolazioni dell’IVF avvengono a molteplici livelli durante il periodo periconcezionale che coincide con un periodo di sviluppo dell’oocita/embrione particolarmente sensibile all’ambiente, tanto da poter alterare la salute della prole, ad esempio sotto l’aspetto cardiovascolare, e anche la fertilità futura, come evidente in modelli animali (Chavatte-Palmer P. et al., 2008). I molti eleganti studi in differenti modelli animali e la coincidenza temporale con l’impostazione della riprogrammazione epigenetica materna suggeriscono che l’iperstimolazione ovarica, la coltura e la maturazione in vitro di oociti, epigeneticamente mutati (Saenz-de-Juano et al., 2016), influenzano l’epigenoma degli embrioni e dei nati. Altri esperimenti in campo animale e la coincidenza temporale con i processi di riprogrammazione epigenetica dopo la fertilizzazione aggiungono argomenti a favore di eventi avversi dovuti alle condizioni e ai terreni di coltura ancora subottimali (el Hajj e Haaf, 2013; Sunde et al., 2016).
Sappiamo anche che epimutazioni dello sperma sono coinvolte nella sterilità maschile, ma possiamo utilizzare tali spermatozoi epimutati nell’ICSI, spermatozoi che evolutivamente avrebbero potuto essere non fecondanti, verosimilmente perché avrebbero dato esito in prole meno competente a breve, medio o lungo termine (Jenkins et al., 2016).
La stimolazione ovarica in IVF differisce dalla normale ovulazione singola per il reclutamento di numerosi oociti di diversa maturazione e qualità; l’ambiente di sviluppo, comprendente substrati energetici, amino acidi, fattori di crescita, ormoni steroidei, citochine, regolatori metabolici forniti dai mezzi di coltura, la tensione di ossigeno, la rigidità del microambiente che non interagisce con l’embrione, la durata della permanenza dell’embrione in coltura, le micromanipolazioni dello stesso (ICSI, diagnosi genetica preimpianto etc.) sono tutti fattori che differiscono dalla qualità e dalle interazioni madre-figlio dell’ambiente tubarico.
Il tutto esita in stress ossido-riduttivo e metabolico più o meno severo, alterazione dei meccanismi di segnale e adattamenti a breve termine attraverso modificazioni epigenetiche con una proliferazione cellulare anomala e alterata distribuzione cellulare tra massa cellulare interna (vero e proprio embrione) e trofoblasto.
La conseguenza è una ridotta competenza all’impianto, alterato apporto nutrizionale materno, abnorme crescita fetale, alterata impostazione degli assi neuroendocrini, anormale peso alla nascita e crescita postnatale e infine rischio di malattia dismetabolica, cardiovascolare e neurocomportamentale da adulti (Bloise et al., 2014; Mainigi et al., 2016). Ad esempio, si sa che i terreni di coltura sono più ricchi in alcuni nutrienti di quanto possa trovare un embrione all’interno della tuba (Leese, 2003).
In effetti in campo umano e animale sempre più emergono prove degli effetti avversi cardiovascolari prima e dopo la nascita. Vi sono studi che forniscono evidenza di disfunzione cardiaca e vascolare in bambini nati da IVF giunti in età adolescenziale (Ceelen et al., 2008; Scherrer et al., 2012; Rimoldi et al., 2014; Scherrer et al., 2015). L’aspetto più importante è che la disfunzione vascolare non è solo correlata a eventuali fattori parentali, dato che non è ugualmente presente in coppie subfertili che poi, concependo spontaneamente, mostrano a quel punto evidenza di riacquistata competenza dei gameti a una prole più sana (Ceelen et al., 2009), ma la severità della stessa è dovuta più verosimilmente alla procedura di IVF in sé (Padhee et al., 2015).
Oggi è ben chiaro che le dinamiche anomale di crescita placentare e fetale sottolineano la necessità di studi a lungo termine sui concepiti con IVF: una sistematica valutazione della crescita fetale e un monitoraggio post-natale sono richiesti per determinare se la IVF anche in campo umano, come già ampiamente accertato in campo animale, produca i deleteri cambi di traiettoria di crescita intrauterina, di funzione placentare correlati a quelli di salute a breve e a lungo termine con un aumentato rischio di malattie, anche a comparsa tardiva (disturbi neurocomportamentali, patologie cardiovascolari, dismetaboliche, obesità) (Nelissen et al., 2014; Melamed et al., 2015; Bloise, Feuer e Rinaudo, 2014). Tante cose infatti non sappiamo sull’esito del prodotto IVF, cioè i bambini.
In IVF vi sono due grandi buchi neri sui quali non abbiamo risposte:
– quanti tentativi falliscono per problemi epigenetici nei gameti e/o nell’embrione?
– E quali sono i problemi di salute dei nati a lungo termine dovuti alle condizioni di vita embrionali? (el Hajj e Haaf, 2013).
Sono necessari con urgenza studi epidemiologici a lungo termine su aspetti metabolici, cardiovascolari, neuro-comportamentali e di altre malattie complesse nei bambini, adolescenti e adulti concepiti con PMA, tenendo conto che molte procedure in PMA non possono essere basate su prove di efficacia e sicurezza, poiché mancano studi conclusivi.
Molti dei bambini nati con IVF appaiono sani, ma effetti a lungo termine dismetabolici e cardiovascolari possono rimanere latenti fino all’età adulta o essere messi in evidenza in precedenza solo da eventi stressanti. Peraltro l’evidenza che le condizioni pre-impianto presentano effetti misurabili che persistono dopo la fase embrionale è innegabile.
Questo rende indispensabile identificare strategie che valutino esiti realmente validi dopo IVF in termini di salute dei nati. Non bisogna solo evidenziare, come si fa comunemente, la probabilità di gravidanza o meglio ancora la probabilità di gravidanza a termine, ma bisogna identificare migliori indici di successo nella IVF che non conducano solo a scegliere l’embrione con migliori probabilità di gravidanza, ma aiutino nell’identificazione del rischio delle diverse patologie che possano insorgere nel periodo di massima sensibilità durante lo sviluppo dell’embrione (Feuer, Camarano e Rinaudo, 2013).
Da un punto di vista ecologico dobbiamo oggi chiederci se applicare la PMA per sterilità, dunque in presenza di anomalie genetiche o epigenetiche dei gameti, non voglia in realtà dire favorire le malattie. Capire come interagiscono oocita e spermatozoo a livello molecolare è infatti ancora uno dei misteri nella riproduzione sessuale. Tuttavia analisi di associazione con malattie indicano che gli stessi difetti di funzione molecolare e/o genici di interazione a livello di interazione sperma-oocita sono anche coinvolti in altri circuiti che esitano in malattie cardiovascolari ematologiche e tumorali.
Sono ancora necessari molti studi e anni per definire il significato di queste interazioni e il legame genetico tra le anomalie di interazione sperma-oocita e le patologie associate (Sabetian, Shamsir e Abu Naser, 2014).
Altre domande da porsi riguardano il ricorso all’iperstimolazione ovarica: serve davvero, tanto più oggi, avere tanti oociti a disposizione? Gli oociti che si ottengono da una iperstimolazione sono tutti competenti?
In realtà solo circa il 5% degli oociti sono biologicamente competenti (adatti ad esitare in gravidanza a termine) in ogni ciclo e in circa 2 su 3 di tutti i cicli nessuno degli oociti ha la competenza di esitare nella nascita di un bambino: veramente sarebbe un maggior beneficio per le pazienti avere parecchi cicli di stimolazioni più soffici piuttosto che stimolare pesantemente in un ciclo allo scopo di ottenere più oociti della stessa coorte, dato che un alto numero di oociti non aumenta necessariamente il numero di bambini nati per coorte (Lemmen et al., 2016). Infatti gli oociti sono ottenuti da una iperstimolazione sono molti, mentre fisiologicamente uno solo è ovulato poiché è il migliore della sua compagnia, gli altri sono, secondo un gradiente di qualità, via via di qualità inferiore. Il tutto si traduce in uno spreco, non normale in natura, e bisognerebbe considerare quanto questo spreco si possa tradurre in spreco di salute di madre e figlio/figli oltre che di soldi della coppia e della società tutta (Patrizio e Sakkas, 2009).
Inoltre dobbiamo anche considerare se tutte le tecniche che si sono affiancate alla IVF sono efficienti. Gli embrioni crioconservati esitano più probabilmente in aborto, macrosomia fetale e malformazioni rispetto ai freschi; se crioconservati allo stadio di blastocisti (5-6 giorni dopo la fecondazione) esitano in aborto più probabilmente di embrioni crioconservati allo stadio di clivaggio, anche per dannose modificazioni epigenetiche (Belva et al., 2008; Hirst et al., 2011; Wang et al., 2011; Khalaf e El-Toukhy, 2011,Pinborg et al., 2014; Maldonado et al., 2015; Korosec et al., 2016; Swain et al, 2016).
Trasferire embrioni allo stadio di blastocisti comporta aumento di rischio di gemellarità monocoriale e aumento di prematurità rispetto al transfer allo stadio di clivaggio (Luke et al., 2014). Quanto meno le pazienti che procedono a transfer di blastocisti ne devono essere appropriatamente rese edotte nel consenso informato.
Infatti oggi si sottolinea che bisogna investigare metodi alternativi alla coltura allo stadio di blastocisti come mezzo per procedere a transfer singolo di embrione e evitare le (pluri)gemellarità (Maheshwari et al., 2016).
PMA con ovodonazione
La PMA con ovodonazione comporta poi problemi specifici che ulteriormente sbilanciano l’equilibrio di salute di tutti i soggetti coinvolti. Le gravidanze da ovodonazione (OD) presentano un maggior rischio di malformazioni (Shrim et al., 2010), poco noto anche poiché non vengono identificate le interruzioni terapeutiche di gravidanza relative (Pecks et al., 2011), inoltre corrono il rischio di essere mal seguite perché le donne non ne rivelano l’origine, per motivi psicologici, ma anche perché non sono state adeguatamente informate che si tratta di gravidanze ad alto rischio (Storry, 2010; Pecks et al., 2011).
Le gestanti da OD sono a più alto rischio di patologia in gravidanza in confronto alle gravidanze da PMA omologhe, per incidenza di ipertensione, preeclampsia, diabete gestazionale, emorragie, gemellarità da monozigosi, il che comporta aumento di malattia e morte materna e fetale anche in giovani riceventi (Keegan et al., 2007; Braat et al., 2010; Pecks et al., 2011; Younis e Laufer, 2015; Kawwass et al., 2015; Luke et al., 2016; Savasi et al., 2016).
Per giungere a esiti soddisfacenti anche per i bambini, dovrebbero essere infatti seguite solo in centri specializzati nel gestire l’alto rischio (Porreco et al., 2005; Shrim et al., 2010), quindi sono gravidanze per le quali devono essere messi nel conto importanti costi individuali e sociali, di salute ed economici.
I neonati da OD presentano alta incidenza di restrizione di crescita intrauterina (IUGR), dovuta alla presenza di preeclampsia (Tranquilli et al., 2013), il che non è privo di conseguenze immediate, ad esempio vi è rischio, individuabile già prima della nascita e dopo, di danno cardiovascolare (Tranquilli, 2013; Zanardo et al., 2013). Vi è aumento di rischio per basso peso alla nascita e parto pretermine anche in caso di gravidanze singole (Malchau et al., 2013).
Si registra anche aumento di diabete gestazionale nella gestante, indipendente dall’età della stessa, con necessità di aumento di ricovero in terapia intensiva per il neonato.
Molti anni fa, nonostante il rischio aumentato gli esiti erano definiti buoni per i bambini, purché le madri fossero accuratamente monitorate in gravidanza (Sheffer-Mimouni et al., 2002), ora invece con maggiore documentazione dell’esperienza si riconosce un rischio di morbilità e mortalità neonatale aumentatorispetto a tutte le altre tecniche di PMA (Savasi et al., 2016). Sono descritte anche complicanze di tipo autoimmune per i nati con rischi immediati (ad esempio danno alle cellule del sangue), anche fatali, ma vi possono essere danni di tal tipo anche a lungo termine.
Infatti i cambi nelle risposte immuni della madre per permettere la sopravvivenza di un embrione semiallogenico (quando l’oocita appartiene alla madre ) fino al parto devono essere in equilibrio con la continua necessità di rispondere appropriatamente a agenti patogeni o commensali, a danno cellulare o tissutale, e a ogni tendenza in senso tumorale. Questo complesso e sofisticato bilanciamento è essenziale per la sopravvivenza di madre e feto, ma anche della specie stessa, e non si mantiene ugualmente preciso in caso di trapianto completamente allogenico (quando l’oocita appartiene a un’altra donna).
Uno dei meccanismi di bilanciamento della risposta immune consiste nel fenomeno del microchimerismo. Microchimerismo è la presenza di cellule fetali nella madre e materne nel feto, che persistono negli anni. Infatti le cellule della gestante persistono per tutta la vita nel figlio, e per questo sono state anche implicate nell’induzione o nella persistenza di malattie croniche infiammatorie autoimmuni.
La tolleranza materno-fetale può avere, relativamente agli antigeni maggiori di istocompatibilità (le differenze molecolari tra individui), implicazioni di salute ben oltre il tempo della gravidanza ed estendersi al corso della vita del figlio (Stevens, 2016). Ad esempio, se si verifica un maggior passaggio di cellule materne nel feto, cioè un maggior microchimerismo materno, questo è correlato a patologia successiva nei bambini, come nel diabete di tipo 1 (Fugazzola et al., 2012), anche non direttamente, ma con azione indiretta favorente l’autoimmunità (Leveque e Khosrotehrani, 2014).
La presenza di cellule fetali nella madre è stata poi associata con effetti sia positivi che negativi sulla sua salute. Si ipotizza che vi possa essere un ruolo protettivo verso alcuni cancri (Cirello e Fugazzola, 2016) come anche un ruolo di induzione per altri o di scatenamento di patologia autoimmune (Bryan, 2015).
Questi effetti divergenti possono essere dovuti al fatto che gli interessi di benessere e sopravvivenza materni e fetali sono gli stessi in certi compartimenti e conflittuali in altri, il che può aver condotto all’evoluzione di fenotipi epigeneticamente diversi di microchimerismo fetale che possono diversamente interagire con i tessuti materni, contribuendo alla salute materna, ad esempio nella riparazione delle ferite, o anche agendo sulla fisiologia materna al fine dell’impianto dell’embrione nell’utero (Sipos et al., 2013) e dell’incremento della trasmissione di risorse alla prole, ad esempio aumentando la produzione di latte (Boddy et al., 2015).
Si sa però che nel corso di gravidanze patologiche, affette da preeclampsia, vi è un maggior trasferimento di cellule fetali nel comparto materno, il cui impatto è ignoto, ma potenzialmente correlato al successivo sviluppo di patologia cardiovascolare e renale nella ex-gestante (Gammill et al., 2013). Anche per questo aspetto, studi a lungo termine sono necessari per capire se una gravidanza da OD (che è un completo allotrapianto), e altrettanto una gravidanza “surrogata” che comporta l’uso di oociti eterologhi, è benefica o indifferente o pericolosa per la salute della gestante e del bambino, andando a valutare tra gli effetti prenatali e postnatali ciò che dovuto a quanto è stato fornito dalla madre genetica e ciò che è successivo all’impianto, dovuto alla gestante (Thapar et al, 2007).
Diagnosi genetica preimpianto
Infine un rapido cenno sulla tecnica utilizzata in PMA per prevenire malattie di tipo genetico, cioè la diagnosi genetica preimpianto (PGD). Le diverse metodologie hanno in comune l’iperstimolazione ovarica che deve condurre al ricupero di molti oociti maturi al fine di avere a disposizione più di 6-8 embrioni tra cui scegliere. Vi è anche un tipo di diagnosi pre-concezionale che si attua direttamente sull’oocita maturo con il prelievo del 1° globulo polare, ma è effettuata raramente o in abbinamento con il prelievo del 2° globulo polare dopo la fecondazione. È stata proposta al fine di poter scegliere gli oociti privi di geni patologici in caso di malattie a trasmissione legata alla X o monogeniche.
In genere la PGD si attua sugli embrioni sottoponendoli a varie metodiche di indagine genetica allo stadio di 6-8 cellule con il prelievo di 1-2 cellule o allo stadio di blastocisti con il prelievo di una decina di cellule circa. Si iniziano a studiare anche metodiche non invasive dell’embrione, ma a livello di ricerca. Sono sempre necessari 10-20 oociti per aver 6-10 embrioni da studiare con 1,5 embrioni in media trasferiti o da trasferire dopo scongelamento. Ciò comporta nella pratica una media di 6 trattamenti per ottenere una gravidanza a termine, attuabili in 2 o 3 anni, poiché nel 28% di cicli in cui è stato effettuato un prelievo non si può procedere a transfer di embrioni e la probabilità di gravidanza a termine è del 17% per prelievo di oociti (De Rycke et al., 2015).
Le diagnosi preimpianto al fine di screening di embrioni (PGS), nell’ipotesi di migliorare i successi nella IVF e non per malattie genetiche della coppia, recentemente sono in diminuzione, dati gli insuccessi ampiamente documentati, verosimilmente per il danno causato dalla biopsia allo stadio di clivaggio (Harper et al., 2010; Gleicher et al., 2014; Wong et al., 2014; Murugappan et al., 2015; Kang et al., 2016; Kushnir et al., 2016).
C’è anche chi allora propone di effettuare la PGS con nuove tecniche citogenetiche solo allo stadio di blastocisti (Cimadomo et al., 2016), ma c’è chi la ritiene parimenti inefficiente (Gleicher et al., 2016).
Bisogna anche tenere conto che il ricorso alla tecnica PGD, nel caso di malattie monogeniche, non garantisce il risultato in qualità, in quanto le misdiagnosi sono sottostimate (circa il 94% degli embrioni paiono correttamente diagnosticati) (Dreesen et al., 2014).
I nati mostrano un significativo aumento di ricorso a cure per problemi di linguaggio e fisici, il che suggerirebbe un effetto della PGD/PGS su poco evidenti parametri di sviluppo (Seggers et al., 2013); bisogna continuare il monitoraggio, anche secondo quegli autori che non riscontrano differenze funzionali in età infantile (Winter et al., 2015), perché ancora non si sa se e quanto la biopsia dell’embrione influenzi lo sviluppo neurologico a lungo termine (Schendelaar et al., 2013 anche per il piccolo numero del campione esaminato (Winter et al., 2015).
Rischi da PMA
Prendiamo ora in considerazione i rischi già ampiamente documentati in IVF. I rischi ampiamente accertati per i nati comprendono problemi perinatali legati alle alterazioni epigenetiche della placenta: prematurità, mortalità e morbilità perinatale in eccesso rispetto alle gravidanze spontanee, ma la cui incidenza fortunatamente sembra in diminuzione per la diminuzione di (pluri)gemellarità e per il miglior monitoraggio delle gravidanze, ora finalmente considerate a rischio e come tali seguite (Henningsen 2014, 2015). Tali rischi sono comunque seri e presenti anche in gravidanze singole (Qin et al., 2016).
Per quanto i dati siano sottostimati, è noto il maggior rischio malformativo dei nati (aumento del 30-50%) a carico di apparato cardiovascolare, genito-urinario, gastrointestinale e muscolo-scheletrico (Feuer et al., 2013; Kelley-Quon et al., 2013; Pinborg et al., 2013; Qin et al., 2016; Qin et al., 2016; Boulet et al., 2016).
Alterazioni epigenetiche sottostanno anche al maggior rischio di asma (aumento di rischio del 96%) (Kuiper et al., 2015), di patologie cardiovascolari o tumorali o neuro-comportamentali a manifestazione tardiva nella prole − obesità, depressione etc. − (Lazaraviciute et al., 2014; Hoeijmakers et al., 2016) e di malattie rare quali Sindrome di Beckwith-Wiedemann, S. Angelman, S. Silver-Russel, S. Goldenhar (Wieczorek et al., 2007; Vermeiden e Bernardus, 2013; Õunap, 2016).
Il ricorso a ICSI in caso di fattore maschile severo comporta ovviamente in figli maschi l’ereditarietà di condizioni che conducono di per sé a sterilità, come ad esempio le microdelezioni sul cromosoma Y. È documentato anche un aumento di rischi tumorali in età pediatrica: aumento di rischio del 42% per i tumori del sistema nervoso centrale, del 67% per leucemie e del 363% per il linfoma di Hodgkin, oltre che un aumento di tumori rari quali rabdomiosarcomi ed epatoblastomi (Källén, 2014; Reigstad et al., 2016).
Rischi specifici a lungo termine per micromanipolazioni, tipi e durata di colture non sono ancora stati adeguatamente studiati per assenza di monitoraggio e di raccolta dati corretta (tipo di stimolazione, mezzi di coltura, transfer allo stadio di blastocisti, maturazione di oociti in vitro, PGD/PGS etc.), da poco tempo infatti vi sono indicazioni precise al riguardo da parte di esperti in etica, legge, sicurezza e qualità delle tecniche di IVF (Provoost et al., 2014).
Come già detto, è ancora troppo presto per escludere importanti implicazioni di salute a lungo termine dei nati (per quanto alcune già evidenziate in più studi su citati), bisogna procedere con un approfondito follow-up dei parametri di salute dei bimbi nati da PMA fino all’età adulta e riproduttiva, mentre come prima precauzione gli embrioni dovrebbero essere trasferiti in utero il prima possibile. Tale è l’opinione di molti esperti, ovviamente non tutti sono stati citati (Pinborg et al., 2013; Nelissen et al., 2013; Sunde e Balaban, 2013; Nelissen et al., 2014; Bolton et al., 2014; Brison et al., 2014; Loke et al., 2015; Ventura-Juncá et al., 2015; Marianowski et al., 2016; Swain et al., 2016; Sunde et al., 2016).
Parimenti poco monitorati sono stati i rischi per le donne sottoposte a iperstimolazione ovarica per IVF. L’iperstimolazione ovarica severa (OHSS), che è condizione a rischio trombotico e di morte e richiede quindi ospedalizzazione anche in terapia intensiva (Mor e Schenker, 2014), è riportata nei registri della PMA pari al 0,1-2% (Zivi et al., 2010; in realtà si presenta con incidenza ben maggiore pari al 5.1% -8.9% se severa e al 10.2%-15.6% se moderata (Toftager et al., 2016).
Altre complicanze sono la gravidanza extra-uterina (incidenza 2,1-8,6% ), la torsione ovarica – incidenza 0,8%, ma 7,5% se è presente OHSS – (Baron et al., 2013).
Il rischio relativo di trombosi venosa in gravidanza è pari a tre volte tanto quello che si verifica in una gravidanza spontanea (Hansen et al., 2014).
Sono descritte anche complicanze oftalmiche a medio termine: un distacco di retina, verosimilmente correlato all’iperstimolazione ovarica dell’IVF, è stato riscontrato con frequenza nettamente aumentata (Ratson et al., 2016).
In monitoraggi a lungo termine sono descritti aumenti tumorali molto significativi, di cui devono essere informate le pazienti nei consensi informati, particolarmente a carico di ovaio, utero, colon-retto in rapporto alla popolazione generale o a pazienti sterili non trattate con IVF (Kessous et al. 2016; Spaan et al, 2016), mentre un rischio aumentato di cancro al seno è più dubbio in generale, ma presente in sottogruppi di pazienti (Krul et al., 2015; van den Belt-Dusebout et al., 2016).
L’aspetto psicologico non è poi da sottovalutare per il peso emotivo dei trattamenti, si evidenzia infatti un rischio di depressione più evidente dopo sospensione dei trattamenti e persistenza di sterilità (Lande et al., 2015; Shani et al., 2016).
Un articolo utile da leggere è Are we overusing IVF? scritto da esperti del settore, cioè The Evidence-Based IVF Group e pubblicato sulla prestigiosa rivista «British Medical Journal» nel 2014; 348: g252-6.
Alcune conclusioni sono qui trascritte.
Dato l’aumento del ricorso alla PMA, è ora di mettere in connessione “la regolazione della pratica” con la necessità di acquisire conoscenza sulla miglior pratica e sulla sicurezza a lungo termine.
Il ricorso alla IVF si è espanso negli ultimi due decenni fino a abbracciare un’ampia gamma di indicazioni, compresa la sterilità inspiegata.
Vi è evidenza molto debole sull’utilità della IVF in alcune delle nuove indicazioni.
Gli esiti in termini di salute dei bambini nati con IVF sembrano essere più poveri di quelli concepiti naturalmente.
Abbiamo bisogno di saper valutare quali coppie hanno una ragionevole possibilità di concepimento spontaneo.
Per quelle che necessitano di aiuto, l’efficacia e la sicurezza in termini di salute dell’IVF dovrebbero essere nuovamente investigate.
Come società siamo di fronte a una precisa scelta.
Possiamo continuare a offrire un accesso precoce all’IVF e non basato sull’evidenza alle coppie con problemi di fertilità o seguire un percorso che ci mette alla prova per poter documentare che i nostri interventi sono efficaci e sicuri e inoltre ottimizzare le procedure di IVF.
Noi dobbiamo sentire il dovere verso tutte le coppie subfertili e i loro potenziali figli di usare la IVF con giudizio e di dare la sicurezza che per prima cosa non stiamo facendo loro del male.
Queste conclusioni sono molto chiare ma sono state molto contestate sulla stessa rivista, sovente con la ragione che ricorrere alla IVF fa felici i pazienti.
I medici tuttavia hanno come primo compito la tutela della salute, tanto più alla luce delle conoscenze e degli avvertimenti attuali.
Un biologo dell’evoluzione, Pascal Gagneaux, in una interessante relazione tenuta a Washington (DC) a febbraio 2016 alla AAAS (American Academy for Advancement of Science) afferma testualmente che i nati da IVF devono fare i conti con la bomba a tempo di una salute compromessa e di vita breve: la Procreazione Medicalmente Assistita potrebbe rivelarsi essere un disastro per la salute quanto lo è il “cibo spazzatura”.
Pascal Gagneux ha chiaramente spiegato perché la PMA sia di fatto un «esperimento evolutivo» e ha avvertito che le sue conseguenze potrebbero ancora non essere evidenti. Medici inglesi hanno replicato che il dr Gagneux non ha dati che confermino il suo avvertimento… Hanno detto il vero: non esiste il monitoraggio di tutti i nati, monitoraggio che è obbligatorio per ogni pratica medica applicata all’uomo, ma che non è stato effettuato in questo campo, in quanto pazienti sono stati considerati le coppie sterili nel momento del trattamento e non i bambini come se questi non fossero l’esito del trattamento e come se gli effetti non fossero da monitorare sul lungo termine.
Sterilità e strategia riproduttiva PMA o risoluzione di patologia?
Ad ogni modo qualcosa deve essere fatto in caso di sterilità.
Certamente è fondamentale studiare e applicare le conoscenze scientifiche a una soluzione ragionata e il più sicura possibile dal punto di vista della salute dei bambini. Se vi è un processo patologico, temporaneo o definitivo, che conduce alla perdita di salute riproduttiva, che ne è del soggetto, o meglio della coppia, dal punto di vista della percezione della propria perdita di salute? Vi è autentica sofferenza. Il medico dovrebbe saperla cogliere e rispondere alla stessa, non come un meccanico aggiustatore ma come un artista sapiente. Il medico deve saper vedere oltre quella rappresentazione della medicina che è il tecnicismo, per intraprendere insieme al paziente la co-costruzione di un percorso di cura, che miri, quando possibile, al ricupero della salute riproduttiva. Molto più sovente di quel che si immagina, ciò è possibile alla luce di una solida conoscenza scientifica dei processi fisio-patologici sottostanti.
Ad esempio in caso di ovulazione inadeguata per sottopeso o al contrario sovrappeso, che comportano infiammazione di basso grado e stress ossidativo con danno alle biomolecole, una correzione dello squilibrio nutrizionale conduce a ovulazione regolare e a gravidanza spontanea per il ristabilimento della normale maturazione epigenetica dell’oocita, il che esita in un neonato in normopeso con una buona prognosi di salute. Se invece nella stessa situazione si applica la PMA, che conduce a stress ossidativo che si somma al precedente, ciò comporta ulteriori alterazioni epigenetiche. La patologia placentare che ne consegue esita in un neonato in sottopeso con una maggior prognosi in diabete di tipo 2, patologie cardiovascolari , obesità etc.
Quando non è possibile superare la patologia, il medico deve offrire conoscenze e strumenti per superare la sofferenza, che è reale sofferenza della coppia. Ma alla luce delle conoscenze scientifiche il ricorso alla tecnica non deve trasformarsi in futura sofferenza del bambino, che è il fine ultimo della funzione riproduttiva e il reale soggetto della cura. Soggetto prioritario cui finora si è prestato ben poca attenzione in un mondo tecnologico e consumista.
Tutto ciò sottolinea quanto fosse adeguata la conclusione del gruppo di esperti su citato: bisogna sapere bene se, quando e come proporre un percorso di PMA, non ritenerlo sempre e comunque una prima scelta e applicare solo le metodologie ben consolidate con una modesta iperstimolazione e il minimo delle manipolazioni e durata della coltura. Comunque è d’obbligo offrire sempre ai pazienti circa le tecniche di PMA informazioni complete, precise e orientate nel caso specifico alla salute della donna e del bambino/i.
Tutta l’ecologia parla di equilibrio come salute e prevenzione di malattia: i dati scientifici su presentati forniscono supporto alla necessità di educare le donne, ma anche gli uomini e la società tutta, a considerare la priorità di un progetto riproduttivo in un’età ottimale e in buona salute.
Bisogna tendere ad assicurare a tutti uno stile di vita e di alimentazione adeguato ad assicurare non solo la gravidanza, ma il benessere dei figli e delle generazioni future, attraverso un’informazione scientifica seria, una promozione adeguata a livello di mezzi di comunicazione e adeguate tutele sociali nell’età riproduttiva ottimale (Godfrey et al., 2011; Aiken et al., 2015; Walker et al., 2015; Robinson et al., 2015).
Bisogna, invece che rassegnarsi alla sterilità e proporre come unico rimedio la PMA, rinnovare gli sforzi a livello di popolazione per prevenire non solo l’obesità in età riproduttiva (Poston et al.,2015), ma anche il sottopeso e lo squilibrio energetico, la malnutrizione e l’inquinamento (Tsutsumi e Webster, 2009; Kozuki et al., Child Health Epidemiology Reference Group Small-for-Gestational-Age/Preterm Birth Working Group, 2015; Webb et al., 2014; Joensen et al., 2013; Wu et al., 2017), tutti fattori che inducono subfertilità e compromettono una sana gravidanza.
Ovvio che un tale globale approccio esiterebbe in chiara evidenza di una migliore salute per tutta la società oggi e domani, ma è chiaro agli occhi di tutti quanto ciò sia difficile da realizzare in un mondo orientato al consumo e allo spreco.
Conclusioni
Se il fulcro dell’IVF e delle tecniche che ne sono conseguite è il facilitare la riproduzione umana coronata da successo, allora ogni sforzo per capire come la riproduzione umana è cambiata da queste tecnologie che permettono di superare gli ostacoli deve essere ulteriormente rinforzato.
Altrimenti il più grande paradosso dell’IVF e della riproduzione assistita potrebbe essere che la sua rapida espansione esacerba le difficoltà che intendeva superare (Franklin, 2013), cioè diminuisce la qualità di prestazione della nostra specie, intesa come salute della stessa.
Le preoccupazioni di salute pubblica sono infatti aggravate dalla evidenza che fattori genetici possono essere correlati alla sterilità, con la conseguenza di nuove generazioni di bambini concepiti attraverso la PMA e potenzialmente affetti da un DNA ereditato già danneggiato che altrimenti non avrebbe trovato modo di inserirsi nel pool genetico delle nuove generazioni.
ll problema è che c’è discontinuità tra il trattamento e le sue conseguenze future (van der Akker, 2013).
A questo punto riprendiamo il discorso dal concetto iniziale di oocita e spermatozoo con genoma e epigenoma corretto, inserendolo in un contesto ecologico, cioè di studio e ricerca di senso dell’ambiente in cui viviamo.
Cosa significa genoma ed epigenoma corretto? Significa che generalmente la sterilità non è una malattia, ma una protezione impostata lungo tutta l’evoluzione al fine di una prole in buona salute, prole adeguata al suo compito di prosecuzione della specie nel modo più versatile e sano possibile.
Pertanto dal punto di vista scientifico non devono essere semplicemente aggirati i limiti evolutivamente impostati, ma piuttosto attraverso nuovi studi individuati e rimossi gli ostacoli a una corretta maturazione dei gameti, con il che automaticamente si potrebbero risolvere gran parte delle sterilità attuali, senza sommare ai danni da inadeguata maturazione dei gameti, epigeneticamente determinata, i danni genetici e epigenetici derivanti da PMA.
Volersi riprodurre con la PMA nelle sue varie forme in presenza di condizioni altrimenti insormontabili o nella speranza di abolire le malattie, può costituire un comprensibile ed umano desiderio, ma razionalmente non dovrebbe di per sé costituire un diritto di fronte ai problemi di salute delle donne, dei bambini e della futura società tutta, come finora previsti e già in parte individuati, e men che mai un paravento dietro cui nascondere i danni che derivano da comportamenti inadeguati individuali e sociali (malnutrizione, inquinamento, riproduzione in età troppo avanzata etc.).
Pensare di passare oltre i meccanismi evolutivamente impostati in milioni di anni richiede ancora molta conoscenza e come medici molta prudenza, secondo il “primum non nocere” cui siamo tenuti. Sempre che si desideri tendere a essere il più possibile ecologicamente e quindi scientificamente corretti.
Note
1 Il Convegno si è tenuto presso l’Aula Magna della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale − sezione parallela di Torino, in data 18 giugno 2016. Promosso e organizzato dal Centro Cattolico di Bioetica − Arcidiocesi di Torino, con il patrocinio di Ufficio per la Pastorale della Salute − Arcidiocesi di Torino, Movimento per la Vita, Associazione Medici Cattolici Italiani, Associazione «Bioetica & Persona» Onlus. Sono intervenuti Monsignor Cesare Nosiglia Arcivescovo della Diocesi di Torino, prof. Giorgio Palestro presidente Centro Cattolico di Bioetica dell’Arcidiocesi di Torino, dr.ssa Clementina Peris medico chirurgo specializzazione in Ginecologia e Ostetricia, già Responsabile della Struttura Semplice di Ginecologia Endocrinologica e Terapia della Sterilità Ospedale S. Anna di Torino fino al 2010, prof.ssa Mariella Lombardi Ricci docente di Bioetica presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale − sezione parallela di Torino, dr Paolo Foglizzo redattore di «Aggiornamenti Sociali». Accreditato ecm per tutte le professioni sanitarie.
La relazione curata della dottoressa Clementina Peris è stata, dalla medesima, rivista e aggiornata al 3 febbraio 2017
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© Bioetica News Torino, Febbraio 2017 - Riproduzione Vietata