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52 Ottobre 2018
Speciale I giovani e il tempo: Dal buio della noia alla luce del dono

Dono: fonte di relazione unilaterale o reciproca?

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Prof. Roberto Repole – Direttore del Ciclo Istituzionale della Facoltà Teologica di Torino

 

Non tutti i doni sono regali

Subito dopo aver chiarito che la mia relazione intende sintetizzare quanto avevo elaborato nel saggio Dono (Rosenberg & Sellier, Torino 2013), occorre premettere che non ci riferiremo immediatamente alla categoria di “regalo”, sebbene abbia a che fare col dono, giacché essa, specialmente in una cultura economico-liberista come la nostra, potrebbe snaturare quello che è il dono per eccellenza. In realtà ci stiamo focalizzando su qualcosa che riguarda una delle dimensioni più profonde della nostra esistenza, nel senso che, al di là dei miti di onnipotenza, nessuno può vivere senza che alla fonte ci sia dono. Ora però non alludo all’origine ultima, ma al fatto che riceviamo continuamente moltissimo, a differenti livelli; per esempio, riscopro con interesse sempre maggiore il fenomeno dell’alimentazione, uno dei più primitivi, cioè dei più semplici, dove sperimentiamo la necessità intrinseca di accogliere qualcosa da fuori.

La cultura del dono a fondamento di ogni società

Nel medesimo tempo parliamo dell’aspetto forse più bello della nostra umanità, ossia della generosità, che implica il doppio dinamismo del ricevere e del dare, talmente importante che attorno a esso ogni civiltà ha strutturato dei riti. Senza ricorrere al racconto tipicamente religioso di Gesù Bambino, perfino o forse tanto più nel mondo iper-consumistico permane la figura di Babbo Natale, un papà dalle sembianze di nonno (dunque in quanto tale all’origine della vita), che rivela come le strenne provengano da un luogo sconosciuto, quasi frutti delle innumerevoli generazioni che si sono consumate prima di noi e da cui dipendiamo. Inoltre ricordiamoci del ringraziamento rituale che viene insegnato ai bambini, quando si porge loro qualcosa: anche se non sembra, qui tocchiamo un fondamento così misterioso che, proprio per questa sua caratteristica, spesso rimane invisibile.
Infine teniamo conto dello studio di uno dei grandi sociologi del secolo scorso, che negli anni Venti si era occupato dello scambio nelle civiltà primitive, giungendo a una tesi che, benché sia stata osteggiata, secondo me resta assai pertinente: la ritualità del dono giace alla base di tutte le società, comprese quelle cosiddette “primitive”. Detto altrimenti, Mauss chiama il dono “la roccia”, ossia il fondamento sul quale è possibile formare ogni società.

L’ambiguità dei doni

enberg_Sellier 2013A questo punto scorgiamo subito un’enorme questione sulla quale meditare: possiamo concepire la convivenza civile senza fare i conti con la gratuità? Se oggi qualsiasi cosa detiene un valore solo quando ha un prezzo monetizzabile, che società è quella in cui tutto viene ridotto a merce? Cionondimeno bisogna evitare di ricadere in una sorta di retorica, come se fosse ovvio che ogni dono coincida sempre con un bene, seppure per certi versi tale prospettiva sia stata addirittura incentivata dalla mentalità espressamente cristiana che considera la parola di Dio come dono, la grazia come essenziale alla fede, i sacramenti come doni dello Spirito Santo… Infatti, al contrario, altre azioni non mostrano che l’apparenza della gratuità, perché mettono il donatario nella condizione di essere ricattato, come nel caso dei favori della mafia che obbligano tanto da togliere la libertà.

In campo linguistico anche Benveniste ha osservato che “dono” deriva da una radice indoeuropea che significa insieme “dare e prendere”, come se nel termine risiedesse già l’ambiguità per cui non tutto ciò che è dato, è dono vero, laddove talvolta si rivela una pretesa. Analogamente il vocabolo Gift vuol dire “dono” in inglese, ma “veleno” in tedesco, quasi a conferma della saggezza custodita dalle culture più antiche, ad esempio nella fiaba di Biancaneve, che ci premunisce dalle offerte pericolose, o nel mito di Pandora la quale sprigionò tutti i mali della Terra, scoperchiando il vaso portato agli uomini da Zeus. D’altronde, se attingiamo alla tradizione ebraico-cristiana, non troviamo qualcosa del genere nella Genesi (v. Gen 3)? Pertanto non dovrebbe stupire che l’umanità si sia sempre difesa da un regime di mero dono.

La logica del contraccambio

Numerosi specialisti ritengono che la fine del Medio Evo sia coincisa con la nascita dell’economia moderna, quando insieme al feudalesimo entrò in crisi anche il legame gerarchico fra dominante e sottoposti. In effetti, almeno sul piano teorico, la logica del mercato prevede che gli scambi si tengano secondo criteri paritari nella misura in cui l’offerta di uno non rende l’altro un “mendicante” o non fa dipendere il primo dall’arbitrio del secondo. Tuttavia, seppure questa regola sia fuori discussione, rimane in questione che ogni ambito della società contemporanea soggiaccia alle leggi del mercato: ad esempio, che gli ospedali si attengano al pareggio di bilancio sembra ragionevole, ma che il fine degli ospedali sia il profitto, è un problema. Perciò occorre uscire dalla logica del mero pareggio, qualora trascuri la dimensione più preziosa e per certi aspetti più imprevedibile della nostra umanità, quella per cui noi ci giochiamo come esseri liberi. Del tutto a proposito il filosofo torinese Ugo Perone ha dichiarato che nello schema del do ut des non possa rientrare l’atto del dono, proprio perché in esso ne va della libertà, ossia la prerogativa più singolare, irripetibile e unica della persona.

È possibile la gratuità?

In un certo senso la confutazione più lampante dell’ideologia per la quale la società sarebbe retta esclusivamente dal mercato, proviene dall’esistenza di chi dona a prescindere dalla logica del contraccambio. Tale constatazione però richiede un approfondimento, perché la realtà del dono gratuito, in quanto espressione di libertà autentica, non è scontata. Fra coloro che l’hanno messa in dubbio, Derrida ha sostenuto che, sebbene la possibilità del dono rimanga addirittura sullo sfondo del pensiero umano, ogni volta che si concretizza, smette di essere dono. Infatti il donatore trova appagamento in qualsiasi forma assuma il proprio gesto, tanto materiale quanto spirituale, ad esempio nel ricordo di aver donato o nella gratitudine del donatario o nell’autostima per aver donato; e rispettivamente il donatario si sente in debito, riproducendo le condizioni per una logica dello scambio.
D’altra parte questa interessante riflessione va percorsa fino a un certo punto, se esclude la pratica del dono in modo categorico, per quanto ammettiamo che ciò che appare come gratuito, non sia sempre tale. In questa prospettiva Marion descrive fenomeni che non ricadono necessariamente nel circolo economico, come la beneficenza effettuata mediante una ONLUS verso chi non potrà ricambiare, neppure con la gratitudine, proprio per il fatto di ignorare l’identità del donatore; oppure la semina di una pianta i cui frutti andranno a favore di chi il coltivatore non conoscerà mai. Soprattutto il dono senza possibilità di ricambiare è la generazione, perché un figlio non potrà mai restituire la vita al padre e alla madre, ma soltanto propagarla, sebbene essere figlio comporti essere genitori e viceversa.

Il dono autentico

Del pensiero di Marion mi sembra decisivo esattamente questo aspetto: il dono è ridondante, non si ferma ai due che si trovano in gioco, giacché l’insegnamento, la cura, l’attenzione, l’affetto o l’amore ricevuti fanno sì che il dono venga moltiplicato perché raggiunga altri, non soltanto colui o colei che li ha offerti. Infatti, come rinveniamo nella dottrina scolastica medioevale, bonum diffusivum sui, ossia “il bene si diffonde da sé”: sebbene si insinui il dubbio che qualsiasi scambio si riduca al piano economico, perfino quando la restituzione non si manifesti che nella pura forma della riconoscenza, bisognerebbe anche domandarsi se tale timore non tradisca una forzatura dovuta all’ideologia mercantilista oggi predominante.
In realtà, sotto qualsiasi forma si presenti, ogni dono crea inevitabilmente una dissimmetria tra chi offre e chi riceve, ma paradossalmente in questa sproporzione si esprime la dimensione migliore e più profonda della nostra umanità, proprio nella misura in cui prescindiamo dalla logica del pareggio. Questo aspetto esclude che la riconoscenza comporti automaticamente un compenso, perché il dono vero è sempre gratuito, nel senso che viene porto senza l’intenzione di ottenere un contraccambio; piuttosto il donatore libera il donatario dalla possibilità di fare a sua volta un dono gratuito, ossia lo assolve dal dovere di restituire. Quando accade ciò, entriamo in una reciprocità di tutt’altro genere da quella dello scambio commerciale: la reciprocità di due libertà. Quindi, se deve essere così disinteressato da trascurare il tornaconto, al contempo il mio dono manifesta un interesse preciso, ossia l’interesse per te.

La reciprocità fraterna

In altre parole, il dono ti colloca nelle condizioni di poter donare a tua volta, anche a me, e in maniera altrettanto gratuita da suscitare una reciprocità virtuosa. Dunque non esiste soltanto la mutualità del mercato, il do ut des, ma anche la reciprocità per cui attraverso il dono io ospito te nella mia vita liberamente, accogliendo la possibilità di essere ospitato nella tua, sicché il donatore può essere capace di donare e nel medesimo tempo essere bisognoso del dono altrui. Per analoghe ragioni risulterebbe pericoloso esigere di poter donare senza accettare un contro-dono, perché potrebbe sottendere un atteggiamento terribilmente superbo e violento.
In conclusione, comunque lo facciamo e in qualsiasi circostanza lo sperimentiamo, il mistero del dono rivela che nessuno è così povero da non avere qualcosa da donare e nessuno è così ricco da non aver bisogno del dono gratuito per poter vivere. In questo senso il dono vero è tutt’altro che un’offerta unilaterale, ma esprime la parte più bella della nostra umanità, ossia la solidarietà e la reciprocità buone. Che cosa si trova alla radice di questo mistero? Il fatto che l’umanità è un’umanità fraterna.

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