Donne «produttrici » di bimbi. L’india delle madri surrogate Uno studio sull'umiliante condizione di chi affitta il grembo
31 Ottobre 2015Parlano le vittime del mercato degli uteri in affitto
Uteri in travaglio, oppure Uteri al lavoro: sono plausibili entrambe le traduzioni del titolo dell’interessantissimo libro di Amrita Pande, docente di Sociologia all’Università di Città del Capo. L’espressione originale – Wombs in labor (Columbia University Press 252 pagine) − con l’uso della parola labor intesa sia come lavoro che come travaglio del parto, racchiude in sé il succo dell’opera: uno studio del fenomeno dell’utero in affitto, visto con gli occhi delle donne che diventano madri surrogate, e che lo vivono come lavoro. Il sottotitolo – «Maternità surrogata transnazionale commerciale in India» – delinea il quadro di riferimento: il testo nasce dall’indagine svolta in India dalla Pande fra il 2006 e il 2011, quando intervistò 52 madri surrogate e mariti e parenti, 12 coppie committenti, tre dottori, tre intermediarie che reclutano donne per la surroga, tre direttrici di ostelli dove vivono le donne incinte e diverse infermiere. Le interviste furono condotte in lingua madre e nelle cliniche o nelle abitazioni delle persone intervistate. Alcune donne vennero contattate più volte: durante le gravidanze a pagamento e anni dopo. Ne emerge un’analisi molto efficace. Proprio perché vuole essere uno studio scientifico ed escludere qualsiasi giudizio morale sui soggetti coinvolti, il quadro complessivo è agghiacciante: un Mondo Nuovo che costruisce un linguaggio, una ritualità e una rete di rapporti funzionali al fiorire e al consolidarsi di una nuova forma di schiavitù, molto elaborata e quindi molto violenta.
Quello della surroga è un pianeta tutto al femminile da cui gli uomini sono esclusi, tranne all’inizio, quando firmano il consenso al contratto delle mogli, e alla fine, quando incassano i soldi. Sono donne a dirigere gli ostelli; sono donne che assoldano nei villaggi le future surrogate; sono donne le infermiere e le ostetriche, e se qualche relazione si crea fra surrogate e coppie committenti, è sempre fra le donne delle due parti, con tutto quel che significa il confronto impari fra le rispettive classi sociali. Pochi i dottori maschi. Nel mondo dell’utero in affitto gli uomini non hanno rapporti fisici con le donne, né i mariti delle surrogate in gravidanza, né tantomeno i padri biologici dei nascituri. Nell’immaginario di una delle intervistate il concepimento avviene con le iniezioni a cui è sottoposta: «Il ruolo del pene è sostituito dalle medicine e dalla tecnologia», spiega Pande. E se certe considerazioni rivelano l’ignoranza di tante donne, non ne va tuttavia sottovalutata la portata: innanzitutto il concepimento mediato dagli arnesi della medicina serve a distinguere la loro prestazione da quella delle prostitute, che invece a pagamento hanno rapporti sessuali e per questo a volte rimangono incinte.
Una differenza ripetutamente ricordata alle e dalle surrogate, per marcare la distanza da chi si prostituisce: anche le più inconsapevoli di quel che succede – il trasferimento nel proprio utero di un embrione non legato geneticamente a sé non è un processo semplice per donne che a malapena sanno leggere e scrivere – comprendono di essere pagate per mettere a disposizione il proprio apparato riproduttivo, e percepiscono nettamente la gravità dello sfruttamento commerciale del proprio corpo, anche quando le famiglie condividono le loro scelte. Ma l’estraneità degli uomini viene vissuta anche come una rivalsa nei confronti di un mondo patriarcale che vede e tratta le donne in secolare subalternità, confinandole nei lavori domestici o in quelli più umili e mal pagati. Sono le stesse donne che, allontanandosi dalla famiglia per andare negli ostelli delle cliniche dove vivranno in gravidanza, saranno in grado di portare a casa quei soldi che i mariti in tutta la loro esistenza non sarebbero mai capaci di guadagnare. E questo in India ha un valore aggiunto, considerando che le politiche antinataliste hanno radicato l’idea della maternità come causa di povertà, da evitare a ogni costo. Molte delle intervistate si erano già fatte sterilizzare, prima di affittare l’utero (gli ovociti vengono da “donatrici”).
«Più bambini hai, più diventi povera, non lo capisci? Ma adesso vale il rovescio. Vedi, sono alla quarta gravidanza (la prima surrogata dopo tre figli propri, ndr) e questo farà felice tutta la mia famiglia», dice Varsha, una delle intervistate. E Rita: «Mia madre convinceva le donne del suo villaggio a sterilizzarsi, o a usare altre forme di contraccettivi (a lungo termine, ndr). Lei accompagnava in città, per operarsi, le donne povere del villaggio. Ma ora che le ingaggia per la surroga passo molto più tempo a portarle alla clinica della signora. Adesso le cose sono diverse. Le madri del nostro tempo possono fare buon uso dei nostri corpi e delle nostre gravidanze. Possiamo guadagnare molto facendo bambini». La gravidanza surrogata trasforma i corpi fertili delle donne povere da “dispendiosi” a produttivi, ma l’obiettivo finale resta sempre quello antinatalista: ridurre la fertilità delle donne povere del Sud del mondo, obiettivo reso ancor più evidente da storie come quella di Parvati, che ha abortito un figlio proprio per poter diventare surrogata. Alla visita preliminare l’avevano trovata all’inizio di una nuova gravidanza, sua, ma «avevamo bisogno di soldi più che di un bambino, e ho abortito. Ora sono incinta di tre gemelli e la Signora Dottore vuole che io faccia un altro aborto (riduzione fetale ndr). Ho pianto così tanto quando la signora me lo ha detto. Le ho chiesto se potevo tenerne uno e darne due a loro (la coppia committente ndr). Ma so che non me lo permetteranno. Mio marito mi ha consolato e mi ha detto: “Quando avremo abbastanza soldi ne faremo uno nostro”. Ma alla mia età non penso sarà possibile averne un altro». C’è un’espressione che alcuni studiosi usano per queste situazioni: «riproduzione stratificata», che indica quelle «relazioni di potere per cui alcune categorie di persone sono rese capaci di riprodursi ed educare mente altre non sono messe in grado di farlo». Pande parla di «neo-eugenetica». Per molte donne questa situazione, paradossalmente, è un lusso transitorio di cui approfittare: l’assistenza medica qualificata, l’alimentazione adeguata e il riposo di cui usufruiscono durante la gravidanza a pagamento nella vita di molte dura solamente il tempo dell’utero in affitto.
La “buona surrogata” non è semplicemente una donna così disperata economicamente da firmare un contratto di gravidanza conto terzi, ma una figura costruita in un lungo percorso di formazione. La surrogata perfetta deve essere «poco costosa, docile, altruista, e in grado di nutrire», e per questo risultato hanno un ruolo fondamentale le mediatrici, le direttrici degli ostelli e le ostetriche, principalmente durante e mediante la lunga convivenza delle madri surrogate negli ostelli, durante i mesi di gravidanza, perché ognuna deve imparare a sentirsi sia una donna lavoratrice che una madre che si riproduce. Il binomio efficace produzione-riproduzione si ottiene solo mediante una disciplina particolarmente repressiva -« inerzia e sottomissione», innanzitutto – e le pagine migliori e più impressionanti di Pande sono quelle in cui viene descritta nel dettaglio la manipolazione mentale a cui le donne indiane, povere e analfabete, spesso provenienti da zone rurali, vengono sottoposte per tutto il tempo della surroga, quando anche le divinità sono usate come razionale.
L’unico dottore uomo intervistato spiega serenamente: «Nelle donatrici di ovociti consideriamo l’età della donna, la sua intelligenza, il suo aspetto, l’educazione, la famiglia di provenienza… Per le surrogate noi siamo invece interessati alle caratteristiche dell’utero. Noi rassicuriamo le surrogate, spiegando che non hanno alcuna relazione genetica con il bambino, ma che loro sono uteri. Dobbiamo fare loro lunghe consulenze prima che siano pronte a essere surrogate. Ed è proprio per questa consulenza che poi non abbiamo problemi con surrogate che non vogliono consegnare il bambino. Le nostre surrogate non sono come quelle americane, che fanno finta di affezionarsi per prendersi qualche dollaro in più. Questa è una delle ragioni principali per cui abbiamo così tanti clienti internazionali».
Convinte di essere solo uteri, da non chiedere più niente. In fondo cosa ha da chiedere per sé, un utero? Le conclusioni di Amrita Pande sono di una durezza straordinaria: in nome della privacy delle persone coinvolte in questa «catena di fornitura, i fornitori dei servizi essenziali, emotivi e fisici sono senza nome, senza volto, anonimi, usa e getta, e gli acquirenti possono facilmente dimenticare che ciò che viene prodotto non è solo un bambino, ma anche una relazione».
Assuntina Morresi
«Avvenire»