Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno
per cui fatica sotto il sole?
Qoelet, I,3
«Divinum est sedare dolorem», una citazione del mondo ippocratico, che conserva ancora oggi il suo valore, unendo da un lato la pietas e dall’altro la nobiltà di una professione vocata nella sua deontologia e nei suoi intenti al prossimo. Tuttavia affrontare un argomento così misterioso e importante come la sofferenza, è un’impresa alquanto ardua. Consideriamo un aspetto dell’esistere umano a cui si addice più il silenzio che la parola, talmente è personale, enigmatico, scandaloso e inesauribile.
La malattia permea la vita di ogni uomo e costituisce una delle esperienze più personali, non soltanto dal punto di vista fisico, ma anche come evento morale ed esistenziale. Del nostro dolore non riusciamo a non occuparci poiché esso sconvolge ogni tentativo di relegarlo in aree inaccessibili. Vi sono tante forme di raccontare l’uomo e la sua perenne avventura, tanti modi di porsi le domande sul senso della vita e sul ruolo che, nella vita, ha la sofferenza. Se è vero che la storia dell’Occidente risulta dall’interna e reciproca flessione di grecità e di tradizione ebraico-cristiana, parlare della concezione del dolore nell’ambito di queste due grandi culture significa comprendere come l’Occidente ha interpretato e in larga parte interpreta ancora il suo soffrire.
A tale concezione si è affiancato nella società occidentale del Settecento il pensiero illuministico. La razionalizzazione ed il sapere fondato principalmente su basi scientifiche ha preso il sopravvento fino a condizionare profondamente l’uomo contemporaneo. Il progresso della scienza e della tecnologia hanno creato dei nuovi scenari nel campo della salute e della malattia. Da un lato hanno aperto originali possibilità alla pratica della medicina, dall’altro lato non hanno mancato di suscitare gravi problemi di natura etica, relativi alla vita, al nascere e al morire.
L’atteggiamento di fronte a queste nuove realtà, il modo in cui sono affrontate e vissute, presenta diversità di forme, non tutte conciliabili tra loro. Nelle diverse culture, tradizioni, etnìe, fedi, si ravvisano dei tratti comuni che vanno nella direzione della comprensione integrale del dolore e della morte e tentano varie soluzioni di salvezza. Esistono numerose vie di approccio alla sofferenza. Alcune correnti di pensiero tendono a negarla, altre la interpretano come una sfida, una prova a cui l’uomo deve sottoporsi in un’ottica di rigenerazione morale. Anche la prospettiva scientifica della medicina, maturata e impostasi negli ultimi due secoli non è esauriente. Essa tende infatti a riconoscere, o almeno a considerare interessanti solo i processi biologici, in un’ottica sostanzialmente fisicistica e meccanicistica.
Tutti questi orizzonti culturali appaiono limitati. Si avverte sempre più la necessità di una corretta e adeguata comprensione dell’uomo, di un’antropologia non riduttiva, concreta, che lo prenda in considerazione nella sua integralità, attenta alla salute fisica, psichica, ma anche spirituale.
Oggi siamo abituati ad avere a disposizione tutto; tutto sembra facilmente raggiungibile. Non vi sono più le privazioni che hanno caratterizzato la vita di intere generazioni passate. La disabitudine al sacrificio conduce quanto può ad intralciare una tranquilla esistenza. L’assuefazione al superfluo o al facilmente disponibile crea un moto di ammirazione nei confronti del mondo moderno e post-moderno. Utilizzare con intelligenza i frutti della terra è buona cosa. Rimpiangere e mitizzare il passato, idealizzato come un momento storico privo di problemi, è altrettanto errato quanto criticare il progresso. È da biasimare, però, il risvolto ipocrita dell’egoismo, che delega a formule collettive di presunta efficienza la soluzione dei problemi legati alla sofferenza. In molti contesti odierni manca quella visione trascendente che conferisce all’uomo un’altra dimensione, in cui i presupposti non siano quelli dell’efficientismo, ma di una vita vissuta come dono agli altri, dove il dolore e la malattia diventino, oltre che una prova da superare, anche un momento di maturazione e di apertura al prossimo.
Il malato non va solo alleviato nelle sofferenze, ma anche ascoltato e compreso, aiutato a trovare un senso a ciò che sta vivendo; si può pertanto dire che la sofferenza innova, senza sosta, il mondo dell’amore umano disinteressato e di conseguenza il primo dono che possiamo offrire al malato è un cuore ospitale, così che il malato cominci a sentirsi familiare e se non è il caso di parlare di gioia della sofferenza, si possa almeno parlare di gioia nella sofferenza. Partendo dalla consapevolezza che la sofferenza può essere provocata non solo dalla malattia ma anche dal contesto sociale in cui si vive, si prospetta una lotta alla sofferenza che comincia da lontano e cioè dall’educazione al rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, alla tolleranza verso il prossimo, alla salvaguardia del creato, l’educazione alla pace e al dialogo.
L’uomo contemporaneo presenta degli aspetti che lo rendono unico e originale, per certi versi profondamente diverso da quello di ieri, calato nell’infosfera, in una società globale, multietnica e multiculturale, mantiene però delle caratteristiche antropologiche che lo rendono profondamente uguale a se stesso. Di fronte alla malattia e al dolore la persona rimane nuda con le sue paure, i suoi timori, le sue fragilità ed è per questo che ha bisogno di sanitari che sappiano cogliere le sue istanze, che si prendano cura di lui in scienza e coscienza, aiutandolo a ritrovare un senso, a recuperare una progettualità che gli renda meno gravosa l’esistenza.
«In qualunque casa andrò io vi entrerò per il sollievo dei malati»: questa affermazione del Giuramento di Ippocrate, pur risalendo al IV secolo a.C., vale ancora per il medico di oggi, di domani, di sempre.
© Bioetica News Torino, Marzo 2021 - Riproduzione Vietata