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51 Settembre 2018
Speciale Disposizioni anticipate di trattamento e obiezione di coscienza

Le Disposizioni anticipate di trattamento (DAT) e la nutrizione e idratazione artificiale (NIA) in Oncologia

Dr Alessandro Comandone, Primario di Oncologia, Presidio Ospedaliero Gradenigo Torino ©F. D'Angelo
Dr Alessandro Comandone, Primario di Oncologia, Presidio Ospedaliero Gradenigo Torino – Foto A.D’Angelo

La legge 219/ 22 dicembre 2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) potrebbe modificare in modo significativo il rapporto medico-paziente in molti campi della medicina. Parlando di DAT tra non addetti ai lavori e nella società civile si ritiene che l’oncologia sia una specialità di prima linea nella applicazione dura e laicista della legge. Il quesito che viene posto in questi consessi è: perché soffrire tanto, senza speranza, essendo portatori di una malattia per definizione mortale come il cancro? Dove se non in oncologia le DAT e in un futuro un’ipotetica legge che renda legale l’eutanasia si applicherebbe meglio che nel paziente oncologico terminale?

Queste asserzioni, fatte da persone che spesso non conoscono l’oncologia e la sua evoluzione, hanno grossa presa sull’opinione pubblica e ben frequentemente, persone che stanno bene asseriscono che «se toccasse a me avere un tumore non vedrei altra soluzione che andare in Svizzera e farla finita». Tutto questo nella scarsa conoscenza di quanto l’oncologia sia evoluta, di quanto possa offrire al malato e della ormai costante presenza a fianco dell’oncologo del palliativista e dello psiconcologo che lo aiutano nelle scelte di terapie di supporto, di terapia del dolore e di sostegno psicologico.

La malattia oncologica grazie ai progressi delle cure chirurgiche, radioterapiche, mediche e di supporto, negli ultimi 15 anni è diventata, tranne rare eccezioni, una malattia cronica. L’anticipo diagnostico con i nuovi mezzi radiologici, endoscopici e di laboratorio, le cure sempre più radicali e potenti portano molte persone a guarire da un tumore. In Italia si contano ormai 3 milioni di persone guarite o a lunghe sopravvivenze. 1/20 della popolazione della nostra Nazione!

Sull’altro versante le persone con malattia diffusa o metastatica hanno prolungato significativamente e di anni la loro speranza di vita, migliorando parallelamente la qualità di vita di questi anni di cure. Ne sia esempio il carcinoma della mammella: negli anni ottanta del secolo scorso la possibilità di guarire era del 50%, oggi è dell’85%. Sempre negli anni ottanta con un carcinoma del colon metastatico la sopravvivenza mediana era di 6 mesi. Oggi è di 34 mesi e tende ancora ad allungarsi.

Certo, non è guarigione, ma è guadagno significativo di tempo trascorso in modo progettuale e dignitoso. Anche patologie più ostiche quali i tumori polmonari e quelli pancreatici, fanno intravvedere una migliore sopravvivenza. Soprattutto negli ultimi 10 anni.
In questi nuovi scenari il rapporto Medico-Paziente e la problematica del consenso informato, trattati nell’articolo 1 comma 1 della legge in oggetto è ormai estremamente famigliare in oncologia, a differenza forse da altre branche della Medicina nelle quali il consenso è visto esclusivamente come salvaguardia medico legale per evitare successivi contenziosi.

Facoltà Teologica: P. Morandini Magistrato e Vice-pres. MpV,  Mons. C. Nosiglia Arcivescovo di Torino e Prof. G. Zeppegno, Dottore di ricerca in  Morale e Bioetica, Docente di Bioetica presso la medesima Facoltà – Foto A.D’Angelo

I dati AIFA sulla ricerca spontanea e sponsorizzata in Italia ci dicono che l’oncologia si fa carico da sola del 72% delle ricerche farmacologiche di 1°,2° e 3° fase in realizzazione ogni anno nel nostro Paese. Comprendiamo dunque come il consenso informato sia pane quotidiano per il medico oncologo e patrimonio culturale acquisito.

Anche nella pratica clinica quotidiana, iniziando una terapia ordinaria e non sperimentale, è obbligatorio acquisire il consenso informato. Parimenti l’esecuzione di esami su materiale biologico di un paziente richiede il consenso informato anche per ricerche future non ancora pianificate o in atto.

Strategico è il comma 2 dell’articolo 1 che afferma «è promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico».
Il comma 3 della legge che recita «ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati» non rappresenta né una novità né un punto critico per l’agire in oncologia.
Il comma 4 recita che il consenso informato va inserito nella cartella clinica ed è azione abituale in oncologia anche per una migliore tutela medico-legale dell’operatore.
Parimenti fondamentale è il comma 8 che afferma «il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura».

In primo piano a sx  Dr. A. Comandone, Prof. don M. Rossino, Professore di Teologia Morale Facoltà Teologica, a dx Prof. avv. Mauro Ronco Ordinario Emerito di Diritto Penale e Presidente Studi Rosario Livatino
A sx Dr. A. Comandone Primario di Oncologia, Prof. don M. Rossino Professore di Teologia Morale Facoltà Teologica Torino, Prof.ssa sr C. Corbella Docente di Teologia Morale- Facoltà Teologica Torino; a dx Prof. avv. Mauro Ronco Ordinario Emerito di Diritto Penale e Presidente Studi Rosario Livatino e Prof. C. Casalone, Coordinatore sezione scientifica Pontificia Accademia per la Vita©Foto A. D’Angelo

Questi concetti sono basilari nella professione dell’oncologo da oltre 50 anni, a seguito della pubblicazione del libro di Kübler-Ross La Morte e il Morire.  In questo testo su cui si sono formate generazioni di oncologi, l’importanza della relazione medico-paziente nelle varie fasi della malattia e il relativo coping psicologico è esposto con chiarezza fin dal lontano 1969.
Non per nulla si è creata a tale riguardo una figura di interlocuzione e di mediazione tra oncologo e paziente che è lo psico-oncologo che ha il compito di supportare il rapporto medico-malato nella comunicazione della notizia nelle varie fasi della malattia. È dunque chiaro che la legge sulle DAT giunge in oncologia né inattesa, né sconosciuta nei suoi contenuti, ma definisce una regolamentazione di quanto già si fa da molti decenni nella pratica clinica quotidiana. Dunque anche il comma 5 sulle nutrizione e  idratazione artificiale (NIA) non cade su un terreno arido o inesplorato.

Le problematiche della NIA sono dibattute sin dagli anni 80. Già il grande clinico e nutrizionalista dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano Dr Bozzetti, 30 anni fa diceva che la NIA andava riservata a casi particolari e non estesa a tutti i pazienti.
Anche il più recente manuale ESMO sulla nutrizione e sul cancro edito nel 2014 e dunque in epoca molto antecedente la legge in oggetto, raccomanda l’uso razionale di tali mezzi basandone la scelta sul consenso informato e su decisioni pluridisciplinari.

La terapia si basa sul counseling nutrizionale, sulla somministrazione di integratori alimentari, di anabolizzanti quali Megesrolo acetato o Medrossiprogesterone acetato. Di certo il problema non si pone nei casi di impossibilità alla nutrizione spontanea dopo un intervento operatorio per neoplasia in diversi distretti corporei. Si può dire che ormai tutti gli interventi dai tumori della testa e del collo, alle exeresi di malattie tumorali nell’ambito dell’apparato gastroenterico richiedono necessariamente la consulenza assidua del dietologo o del dietista per favorire la ripresa delle condizioni generali, scongiurare la perdita di peso e l’insorgenza delle complicanze da malnutrizione.
Parimenti in caso di terapie che compromettano la capacità ad alimentarsi come terapie radianti della cavità orale, del tratto esofageo o chemioterapie con alte dosi di farmaco che inducono mucositi del tratto gastroenterico, richiedono senza alcuna ombra di contestazione la nutrizione artificiale enterale o parenterale. Nessuno solleverebbe mai dubbi sulla necessità vitale di tali trattamenti.

Moderatore del Convegno, Prof. Enrico Larghero, Medico-Teologo, membro del Centro Cattolico di Bioetica - Arcidiocesi di Torino
Il moderatore del Convegno, Prof. Enrico Larghero, Medico-Teologo, membro del Centro Cattolico di Bioetica – Arcidiocesi di Torino

Ancora ampiamente condivisi o accettati sono le NIA in caso di occlusione intestinale per carcinosi peritoneale o per stenosi plurime del tratto gastroenterico causate dal tumore. Qui la speranza di vita si abbrevia, ma nessuno penserebbe mai di sospendere il trattamento nutrizionale che condurrebbe a morte lenta e dolorosa per disidratazione, denutrizione e scompenso idro elettrolitico.
Un processo decisionale diverso va invece attivato in caso di cachessia neoplastica. Con tale termine intendiamo una sindrome polifunzionale e multiorgano che determina la perdita di peso > 5% o di massa corporea del 20% sostenuta dalla crescita della malattia neoplastica, da un quadro talora di malnutrizione con conseguente grave sarcopenia (perdita prevalente di massa muscolare) e da uno stato infiammatorio diffuso. La cachessia quando si configura determina una speranza di vita che oscilla tra i 6 e i 9 mesi.
Se il quadro clinico non migliora con le suddette misure, allora si parla di cachessia refrattaria ed è caratterizzata da un ipercatabolismo anche molto rapido con speranza di sopravvivenza inferiore a 3 mesi. In questo caso i numerosi studi effettuati negli ultimi 20 anni non hanno evidenziato un beneficio specifico di una nutrizione artificiale, perché non è in grado di migliorare i sintomi generali. Anzi alcuni autori hanno evidenziato un effetto non positivo della NA con un aumento degli edemi periferici, un accentuarsi degli squilibri idroelettrolitici e una sopravvivenza talora inferiore rispetto a pazienti cachettici trattati con sola terapia con anabolizzanti e integratori.
Nei quadri conclamati di cachessia refrattaria la nutrizione artificiale è spesso intrapresa più per motivi psicologici nei confronti del malato e della famiglia che non per una reale efficacia della stessa, sia nel convertire il processo di sarcopenia, sia nel prolungare la sopravvivenza. Ecco dunque che in queste situazioni una volontà del Paziente di non intraprendere una nutrizione artificiale dovrebbe essere rispettata perché tale misura si rivelerebbe inutile se non controproducente.

Il rifiuto alla idratazione artificiale, ha poco a che fare con la buona pratica clinica

Assolutamente diverso è il problema dell’idratazione artificiale. Un organismo in stato di fine vita necessita di non più di 1000 – 1500 cc di soluzione fisiologica o glucosata in 24 ore, per evitare una morte atroce come quella da disidratazione che provoca febbre, vomito, scompenso idro elettrolitico. Aver incluso nelle DAT il rifiuto alla idratazione artificiale ci sembra una posizione di principio che poco ha a che fare con la buona pratica clinica. Noi non prolunghiamo assolutamente la vita idratando un paziente, né facciamo accanimento terapeutico. La cura impegna pochissimo tempo durante l’arco della giornata, non richiede manovre invasive come quelle richieste per la nutrizione artificiale, infatti la semplice infusione di 2 fleboclisi/die per via di vena periferica è sufficiente.
Riteniamo dunque che questa norma inclusa nella legge sulle DAT poco o niente abbia da condividere con la situazione reale dell’oncologia, dove spesso è proprio la condizione clinica a richiedere che si idrati il malato in fase terminale per ridurgli le sofferenze.
Ritengo dunque che il problema dell’ idratazione artificiale vada sempre condivisa con le decisioni del paziente, ma che intensità di cura molto bassa, e vantaggi e svantaggi vadano spiegati in modo adeguato.

Resta poi il problema affrontato dal comma 7 dell’art 1 della Legge:

nelle situazioni di emergenza o di urgenza il medico e i componenti dell’équipe sanitaria assicurano le cure necessarie nel rispetto della volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla

A fronte di un malato in fase terminale con crisi di delirium o con ipertermia maligna il mio comportamento si atterrà alle disposizioni anticipate di trattamento con un generico rifiuto delle cure o queste condizioni saranno da considerare situazioni di urgenza e dunque imporranno al medico un intervento per ridurre i disagi e le sofferenze del malato?

Prof. Don Giuseppe Zeppegno insieme alla Dr.ssa Sr A. Derossi ©Foto A. D'Angelo
Prof. Don Giuseppe Zeppegno e il prof. G. Palestro Presidente del Centro Cattolico di Bioetica – Arcidiocesi di Torino con la Dr.ssa Sr A. Derossi Responsabile del SC Centro Formazione e Ricerca Presidio Sanitario Ospedale Cottolengo insieme ad alcune colleghe cottolenghine ©Foto A. D’Angelo

Altro punto da approfondire nell’applicazione della presente legge è chi abbia il dovere di applicarla in un regime di cura pluridisciplinare che è sempre più comune in oncologia. Soprattutto negli ultimi 15 anni l’oncologia è diventata pluridisciplinare con una stretta collaborazione tra diversi specialisti. Consideriamo ad esempio un gruppo pluridisciplinare per i tumori del colon: le figure indispensabili sono il chirurgo, il gastroenterologo, l’oncologo, il radiologo, il radioterapista, l’anatomo-patologo, l’infermiere stomatoterapista, lo psico-oncologo e il palliativista. Ognuna di queste ha una professionalità fondamentale in un percorso che ponga il malato al centro delle attenzioni e delle cure. Il saper lavorare insieme, l’armonizzare gli interventi, il ridurre al minimo i contrasti e le differenze di vedute offrono il miglior risultato nella cura globale del paziente.
Quando ci si approssima a momenti fondamentali della storia clinica della malattia la capacità di collaborazione e di dialogo del gruppo vengono esaltate o, al contrario, conoscono momenti di profonda crisi per le diverse convinzioni personali e ideologiche.

Chi ha il compito tra tutte queste figure di rivelare la diagnosi al paziente? Il chirurgo che per primo incontra il paziente? L’oncologo che ha la regia di tutta la gestione del percorso di malattia? Il palliativista che lo cura nelle fasi terminali? Il medico di medicina generale che conosce da più tempo il soggetto, anche quando non era affetto da malattia oncologica e che meglio dovrebbe conoscerne gli aspetti psicologici e di convinzioni ideologiche?
Chi si carica della responsabilità del rapporto primario e della rivelazione della diagnosi?
Chi condurrà le scelte nel percorso di malattia?
Chi raccoglierà le richieste del paziente che possono variare nel corso della malattia stessa?
Chi spiegherà le nuove possibilità terapeutiche in ambito oncologico che rendono oggi possibili risultati un tempo addirittura inimmaginabili, ma frequentemente solo in termini di palliazione e di prolungamento di sopravvivenza?

Di certo per un lungo periodo della storia di malattia l’oncologo ha una funzione centrale: è la figura di riferimento, di consiglio, di confronto, talora di dibattito dialettico. Ma in realtà in molti casi la fase terminale di malattia non viene condotta dall’oncologo, ma dal palliativista e dal medico di medicina generale soprattutto quando le fasi finali si realizzano in casa o in hospice.
Dunque chi verificherà la validità e porrà in atto le richieste espresse con le DAT magari espresse anni prima in stato di stato di benessere e senza una precisa coscienza di quale evoluzione avrebbero potuto avere la propria storia di salute e soprattutto i progressi della medicina?

Centrale infine il problema della obiezione di coscienza del medico. La legge stessa, per noi che giuristi non siamo, pare contraddirsi. Infatti al comma 6 la prima parte del testo recita che

il medico è tenuto rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e in conseguenza di ciò è esente da responsabilità civile o penale.

Nella seconda parte dello stesso comma si recita:

il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari alle norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico assistenziali. A fronte di tali richieste il medico non ha obblighi professionali
Prof.
Prof. Giorgio Palestro, mons. Cesare Nosiglia, dr. Alessandro Comandone  ©Foto A. D’Angelo

È evidente che il richiamo della legge è un esplicito no alla richiesta di eutanasia attiva, ma si pone anche a fronte della decisione di intraprendere una terapia antibiotica in un malato terminale di cancro con un quadro di grave infezione polmonare che se non curata lo condurrà certamente a morte. Vale in questo caso la volontà di desistenza a qualsiasi cura o il concetto di stato di necessità a fronte di una complicanza potenzialmente curabile (la polmonite) deve essere affrontata anche se il quadro clinico dominante (il cancro in fase metastatica che ha indotto una situazione di terminalità) non è correggibile?

In fase terminale, la malattia presenta molteplici necessità cliniche, psicologiche e spirituali

E questo aspetto ci porta a trattare di un ulteriore scenario che la malattia oncologica in fase terminale ci presenta: le molteplici necessità cliniche, psicologiche e spirituali che un malato di tumore può presentare nelle fasi di fine vita.
Infatti nutrizione e idratazione sono due degli aspetti della relazione di cura. Ma come ben esplicitato dal manuale di cure palliative dell’AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) e del MASCC (Multinational Association for Supportive care in Cancer) i problemi sono complessi e così riassumibili in ordine alfabetico: ansia, astenia associata al cancro, cachessia, delirium, depressione, diarrea, dispnea, dolore, emesi (vomito e nausea), edemi e versamenti (accumulo di liquidi nei tessuti),infezioni, ipertensione endocranica da tumori cerebrali primitivi o secondari, malnutrizione, mucosite, necessità trasfusionali, occlusione intestinale, prurito, singhiozzo, stipsi, tosse, tromboembolismo venoso, xerostomia (mancanza di salivazione). Fondamentale poi il capitolo della sedazione in fase terminale che si pone trasversalmente a molte situazioni sopraelencate.

Dat e obiezione di coscienza_ convegno_ Facoltà Teologica Torino 19 maggio 2018
Foto A. D’angelo

Siamo certi che il soggetto che esprime le proprie DAT sia a conoscenza di quali complicanze potrà avere se contrarrà un cancro o nella prosecuzione di malattia e la sua volontà di astensione terapeutica si estende a tutte le sopraindicate condizioni, alcune delle quali molto gravi e portatrici di sofferenza (pensiamo al vomito, al dolore, alla occlusione intestinale) che potrebbero essere controllate, non certo guarite, con misure terapeutiche attive?

Perché a fronte di molteplici situazioni che abbiamo elencato partendo da classificazioni assolutamente scientifiche e non di parte, il Legislatore ha concentrato la propria attenzione su nutrizione e idratazione artificiale definendoli trattamenti sanitari e aprendo un capitolo ad hoc quando esistono problematiche ben maggiori, vedasi l’occlusione intestinale, l’edema polmonare, il vomito incoercibile e il dolore?

Il nostro timore è che nella stesura della legge abbiano avuto molta importanza gli aspetti emotivi legati alle note e penosissime situazioni di Eluana Englaro, di Piergiorgio Welby e di Fabiano Antoniani (DJ Fabo) in cui la nutrizione e l’idratazione artificiale hanno avuto un ruolo importante nella prosecuzione dell’esistenza di questi malati, colpendo nella sensibilità e nell’emotività più profonda l’opinione pubblica. Ma le cure palliative in fase terminale di malattia oncologica coprono campi molto più ampi e complessi come abbiamo cercato di spiegare.

Per fortuna il rapporto di cura nel malato oncologico dura un tempo molto lungo, permette la conoscenza approfondita tra i vari attori (paziente, medici, famigliari) e favorisce lo scambio di informazioni che conduce ad un rapporto lineare e raramente conflittuale. Soprattutto la fase agonica e di pre morte è breve perdurando in un ambito di ore o al massimo di giorni. In questo ultimo periodo, paradossalmente, se si accendono conflitti in Oncologia è per il motivo diametralmente opposto a quello della Legge sulle DAT.

Dat e obiezione di coscienza Torino 2018_ foto A. D'Angelo
Foto A. D’angelo

La richiesta è di avere sempre più cure, sempre nuovi farmaci, anche in contesti in cui tali terapie non sono applicabili. Talora si fa richiesta, del tutto inutile, di rianimare un malato oncologico in arresto cardiaco. Ne siano esempio le cure immunologiche dei tumori solidi. Queste terapie che hanno la finalità di riaccendere la capacità immunitaria del soggetto malato e di contrastare il procedere della neoplasia sono oggi approvate nel melanoma metastatico, nel carcinoma renale e in alcune limitate forme di tumore polmonare e di carcinoma della vescica. Negli altri tumori o non hanno offerto risultati o sono ancora in corso le sperimentazioni. Una non buona campagna informativa per mezzo stampa o di web ha fatto intendere che questi trattamenti sono attivi in tutti i tumori e che possono guarire (non cronicizzare) la malattia, ma che, a causa dell’elevato costo, vengono proposte raramente.
La richiesta di uso anche inappropriato dei farmaci immunologici è aumentata nel corso dei mesi e la spiegazione di non utilità determina in genere il sospetto che il medico non voglia praticare tale trattamento per il costo finanziario molto elevato, o perché il malato è anziano. Quindi in oncologia paradossalmente vi è una forte richiesta a trattare di più e non, per il momento, ad interrompere le cure.
Credo che anche in questi frangenti la valorizzazione della relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico abbia un ruolo fondamentale per evitare tensioni, malintesi e sensazioni di abbandono.

“Può essere considerata una buona legge che non apre a derive eutanasiche”

In conclusione credo che la legge 219/2017 possa essere considerata una buona legge che non apre a derive eutanasiche e che pone in evidenza come la medicina stia cambiando molto rapidamente. La legge per contro espone a possibili difficoltà di concreta applicazione. In particolare la difficoltà a prevedere con esattezza e a distanza di tempo, in condizioni di benessere psicofisico, quali potranno essere le tipologie che legittimeranno la sospensione della terapia. L’impossibilità di prevedere i progressi medici che avverranno nei prossimi 5-10 anni e più ancora oltre. Sicuramente per valutare la proporzionalità delle cure vanno tenuti in conto le condizioni generali del paziente, il tipo di terapia, la loro applicabilità, la proporzione tra mezzo e fine perseguito, il grado di impegno umano, tecnico e finanziario. Qualora un intervento apparisse sproporzionato, è doveroso sospenderlo, mentre si continueranno le cure normali volte a palliare i sintomi.

Come già espresso, in un malato di cancro in fase terminale, possiamo ritenere non appropriate le misure intense di alimentazione artificiale, mentre l’idratazione, a nostro avviso, può essere considerata misura normale di cura. Soprattutto nel concetto di cura continua del malato non possiamo dimenticare che una persona in fase terminale ha molte esigenze di cura non solo fisica, ma psicologica e spirituale.
La cura globale del malato non può dimenticare la triplice dimensione della nostra esistenza e la necessità di umanesimo integrale che la scienza medica da sempre evoca e richiama.

Per il medico credente: aspetti di dialogo e critici della legge

Il medico credente non deve, a mio avviso, esprimere un rifiuto a priori della legge. Gli aspetti di dialogo come tempo di cura, di consenso informato e condiviso, di autonomia professionale vanno valorizzati. Più critici sono il problema della possibilità di obiezione di coscienza e di quali cure sono da considerare ordinarie o sproporzionate. Soprattutto, prevedendo un ampliarsi di conoscenza all’interno della società civile dei meccanismi della legge, dobbiamo attenderci un crescere, seppur non plebiscitario, di adesioni alle DAT.

Per i medici credenti è questione prioritaria attivare percorsi d’informazione e di educazione affinché ci si trovi preparati alle richieste dei malati che si affidano alle nostre terapie e sappiamo rispondere in primo luogo alle loro esigenze di cura anche quando la finalità non è più la guarigione.

Concluderei con le parole profetiche di Papa Benedetto XVI pronunciate nel 2008:

La specifica missione che qualifica la vostra professione medica e chirurgica è costituita dal perseguimento di tre obiettivi: guarire la persona o almeno cercare di incidere in maniera efficace sull’evoluzione della malattia; alleviare i sintomi dolorosi che la accompagnano, soprattutto quando è in fase avanzata; prendersi cura della persona malata in tutte le sue umane aspettative.

Queste sono le finalità della nostra professione.


Bibliografia

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