Riparte il disegno di legge
La prima proposta di legge per garantire ai cittadini il diritto di sottoscrivere dichiarazioni anticipate sui trattamenti medici da mettere in atto o da evitare qualora non fossero più in grado di interloquire con i sanitari (Dat) fu presentata alla Camera dei Deputati Il 10 febbraio 1999. Sono passati più di dieci anni e non si è ancora addivenuti ad una soluzione normativa.
È facile pensare che la classe politica abbia faticato a prendere in carico questa questione perché ha chiaramente percepito che una disciplina in tal senso non porterà ampi consensi. Nel recente passato l’opinione pubblica, stimolata da casi Welby e Englaro, ha invece preso a cuore il problema e si è divisa in due schieramenti contrapposti.
Molti notano i limiti che eventuali Dat portano con sé. Primo tra tutti, la mancanza di attualità. Nessuno può, infatti, prevedere quali saranno i progressi scientifici. Le disposizioni previe del paziente potrebbero inibire pertanto il diritto-dovere del medico di proporre le terapie innovative ritenute, in scienza e coscienza, utili e adatte al caso specifico. Altri, in ossequio alla convinzione che ciascuno deve essere messo in condizione di decidere senza riserve il tempo del proprio morire, sono favorevoli a interventi eutanasici, al ricorso alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale e di ogni altra cura palliativa.
Il decreto legge approvato dal Senato il 26 marzo 2009, il cosiddetto Decreto Calabrò, sull’onda emotiva suscitata dal caso Englaro, si è concentrato sulla questione degli stati vegetativi e ha prestato minore attenzione alle diversissime situazioni dei malati con disabilità cronica o in fase terminale. Ha avuto però il merito di affermare che la vita umana è inviolabile. Facendo forza su quest’asserto fondamentale, ha sostenuto la necessità di evitare ogni apertura all’eutanasia nella convinzione che la tutela della libertà individuale non deve pregiudicare il bene sommo della vita. La scelta di perderla non è espressione di libertà, anzi è esattamente l’opposto perché la libertà si esprime solo attraverso la vita. Ha inoltre suggerito l’importanza di evitare l’accanimento perché l’esistenza non va prolungata a costo d’inutili sofferenze. Ha anche rigettato la deresponsabilizzante idea che l’abbandono terapeutico possa trovare una sorta di legittimità. In pieno ossequio alla Convenzione di Oviedo, ha notato che le Dat devono essere prese in considerazione ma non sono vincolanti perché il medico non può accettare indicazioni «in contrasto con le norme giuridiche o la deontologia medica». Per adeguarle sempre più agli sviluppi della medicina, ha anche precisato che devono essere rinnovate ogni cinque anni fin quando il redattore è capace di intendere e volere.
Il testo, passato alla Camera, è stato rivisto dalla Commissione Di Virgilio, ma si è rimandata per mesi la discussione in aula. Ripreso il dibattimento il 6 luglio 2011, è stato approvato il 12 luglio con un’ampia maggioranza trasversale (278 favorevoli, 205 contrari e 7 sette astenuti). Il nuovo testo ha mantenuto l’impianto generale del Decreto Calabrò, ma, al tempo stesso, ha precisato alcuni aspetti prima carenti. È composto da otto articoli, uno in meno del precedente. Particolarmente degna di nota è la riformulazione del terzo. Precisa che il documento deve essere preso in considerazione quando si verifichi una qualsiasi situazione clinica che provoca la permanente «assenza di attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale».
Questa espressione non si riferisce solo agli stati vegetativi, ma ingloba anche altre situazioni non considerate dal precedente decreto. Estende pertanto saggiamente l’attenzione a tutti i casi in cui è definitivamente compromessa la capacità di interagire efficacemente con l’ambiente circostante. È doveroso precisare che la formulazione utilizzata è ritenuta da molti equivoca. Il Ministro Fazio ha dichiarato che si sarebbe impegnato a chiarirla ricorrendo eventualmente al Consiglio Superiore di Sanità. È comunque priva di fondamento e volutamente tendenziosa l’identificazione di questo stato clinico con l’assenza totale dell’attività cerebrale (morte cerebrale). È assurdo ritenere, o far credere di ritenere, che i due rami del Parlamento hanno speso tempo ed energie per sottoscrivere un documento atto a consentire la sospensione dei trattamenti a quanti sono morti.
Il medesimo articolo precisa che, anche se alimentazione e idratazione artificiale non devono costituire oggetto di Dat, possono essere sospese quando in fase terminale non sono più efficaci. È stato inoltre abolito l’ottavo articolo che proponeva il ricorso al giudice tutelare quando, in assenza di fiduciario, «i soggetti parimenti legittimati a esprimere il consenso al trattamento sanitario» manifestano un insanabile contrasto sulle strategie da attuare. Allo stesso modo è stato cancellato il terzo comma dell’articolo sette che prevedeva l’intervento di un collegio medico nel caso fosse sorta una controversia tra fiduciario e curante. Queste ultime due limitazioni alimentano non poche perplessità. È plausibile temere che, se non saranno corrette, provocheranno nei casi di contenzioso infiniti ricorsi alla Magistratura.
Come vuole la prassi, appena approvate le modifiche, il provvedimento è nuovamente passato al Senato per la definitiva ratifica. Ancora una volta il testo si è a lungo arenato. Dopo 15 mesi, il 2 ottobre 2012, la Commissione Sanità del Senato ha finalmente ripreso in esame il disegno di legge. Il sen. Maurizio Sacconi il giorno successivo ha iniziato a raccogliere firme per favorire la pronta discussione. Gli è subito opposto il collega Ignazio Marino dichiarando che il Partito Democratico si opporrà con tutte le sue forze all’approvazione del documento. È grande il timore in buona parte dei senatori favorevoli al decreto (la maggioranza dei membri eletti del PDL, UDC, Lega, Api e alcuni esponenti del PD) che gli avversari tentino di evitarne l’approvazione in questa legislatura che ormai volge al termine chiedendo in massa il diritto di prendere la parola per dilatare a dismisura i tempi del dibattito.
L’ipotizzato ostruzionismo manifesta la diffusa idea che abbia valore solo la vita “biografica”, quella cioè che mantiene le piene potenzialità (attività corticali integre, autocoscienza, soddisfacente capacità relazionale e vissuto sereno). Quanti assecondano questa teoria sono convinti che chi ha perso o non ha mai avuto le facoltà umane superiori vive una vita senza valore, indegna di essere tutelata. Una problematica concezione dell’autonomia del paziente fa poi dire a molti che ogni persona ha il diritto di stabilire i tempi e i modi del proprio morire anche se non versa in una fase terminale della vita. Giustificano quest’asserto sostenendo che l’art. 32 della Costituzione legittima il rifiuto delle cure [sic!]. Dimenticano che durante i lavori preparatori dell’Assemblea costituente, l’on. Merighi propose un emendamento aggiuntivo all’articolo 32. Era sua intenzione chiarire che sussisteva il dovere dell’individuo di tutelare la propria salute anche per rispetto della collettività. Gli si oppose l’on. Tupini che ritenne superflua l’aggiunta giacché la tutela della salute da parte dell’individuo era principio da ritenersi scontato.
Sembra pertanto paradossale asserire il diritto alla morte usando una norma che è stata scritta per assicurare senza riserve l’impegno sociale per la vita. Non a caso l’attuale ordinamento giuridico italiano condanna ogni attentato alla vita. Chi provoca la morte di un malato terminale è condannato, infatti, salvo possibili attenuanti, a una pena detentiva non inferiore ad anni 21, secondo la più rigorosa disciplina dell’omicidio volontario comune indicata dall’articolo 575 del c.p.
In diversi comuni nell’attesa che l’empasse parlamentare sia superata, si stanno istituendo i registri comunali per raccogliere le Dat. Questa tendenza è motivata essenzialmente dalla volontà di dare un segnale di carattere politico e ideologico. Le dichiarazioni rilasciate saranno però di fatto illegittime perché l’anagrafe non è autorizzata ad assolvere questo compito, solo lo Stato può attribuire tale funzione (art. 117 della Costituzione). Secondo una circolare ministeriale emanata nel 2010, i Comuni che danno corso a iniziative del genere possono essere ritenuti responsabili di una cattiva gestione delle risorse affidate.
Particolarmente problematica è inoltre la tutela dei documenti raccolti. I comuni e le associazioni che li accettano, incuranti dell’assenza di una previa autorevole autorizzazione, non possono infatti garantire una adeguata privacy. Il medico poi, anche se fosse a conoscenza delle disposizioni depositate da un suo paziente incapace, non potrebbe tenerle in considerazione se richiedessero atti eutanasici o sospensioni di trattamenti ritenuti proporzionati. Il codice deontologico della categoria e le norme generali, infatti, non offrono alcuna giustificazione all’eliminazione di vite umane. È invece riconosciuta la facoltà di non favorire la distanasia, cioè la morte difficile e travagliata di chi è costretto a trattamenti destinati unicamente a prolungare il processo di morte. L’eventuale decisione di astenersi dal praticarli non può diventare una forma di abbandono, ma deve essere posta in atto qualora si ravvisi l’esistenza di un limite invalicabile.
Nella fase della terminalità, quando ogni rimedio per arginare l’evolversi della malattia è inutile, è peraltro riconosciuto il valore della desistenza terapeutica che non abbandona il malato, ma, attraverso le cure palliative, l’avvolge di tutte le attenzioni necessarie affinché, controllati i sintomi, possa vivere l’ultimo tratto della sua esistenza il più serenamente possibile.
È infine utile ricordare che anche quando la legge sarà definitivamente varata, non sarà opportuno considerare solo le Dat. Non dovrà infatti mancare un’autentica alleanza terapeutica capace di instaurare un dialogo frequente con i sanitari e con persone significativamente correlate e autorizzate a prendere decisioni.
© Bioetica News Torino, Ottobre 2012 - Riproduzione Vietata