Il tema affrontato, come abbiamo ascoltato, ha messo in evidenza spunti interpretativi diversi riguardo ad alcuni passaggi della legge n. 219 che si sono rivelati discutibili e non privi di una certa ambiguità.
La legge affronta e norma una serie di questioni, alcune delle quali erano già oggetto di normative esistenti, come il consenso informato, già elemento centrale del nuovo Codice di Deontologia medica. La legge, tuttavia, ne definisce in modo dettagliato non solo il significato, ma anche le modalità con le quali il consenso informato deve essere documentato.
Così come il tema dell’art. 2: «divieto di ostinazione irragionevole delle cure», che, in sostanza consiste nell”’accanimento terapeutico”, come precisa il Co.2, pur senza definirlo così.
Anche questo non è un tema nuovo. Di fatto è già stato affrontato e definito sul piano bioetico-morale e acquisito in particolare nella cultura operativa del personale sanitario.
Il principio generale dell’ Accanimento terapeutico, che è molto più chiaramente definito e recepito nei casi di trattamenti farmacologici, risulta invece molto più difficile da definire quando il principio si sposta ai trattamenti ottenuti con dispositivi tecnologici.
Sul tema generale dell’accanimento terapeutico, illuminante risulta il recente intervento (16 novembre 2017) di Papa Francesco laddove afferma che gli interventi sul corpo umano «possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute».
L’art. 4 sostituendo il termine precedente: «Dichiarazioni anticipate di trattamento» in «Disposizioni», ne cambia il concetto, assegnando un peso giuridico assai maggiore a una casistica peraltro già esistente e già oggetto di pratica.
Va tuttavia sottolineato che, per quanto non concettualmente nuove, tutte queste questioni erano ancora affidate a una certa libertà interpretativa da cui poteva derivarne una soggettività applicativa.
Ora, con la legge n. 219, tutte le questioni affrontate vengono sottoposte al peso della legge, la quale intende fornire indicazioni procedurali, modalità di esecuzione, legittimità di comportamenti.
Va tuttavia rilevato che il dettato di legge non è scevro di punti di forte contrasto non solo bioetico, ma concettuale.
1) Uno di questi consiste nel diverso modo di intendere la nutrizione e idratazione artificiali (NIA). Secondo il legislatore esse vanno intese come trattamenti sanitari in quanto somministrati da dispositivi tecnici.
È questa una posizione che configge con quella, peraltro assai diffusa, di chi, considera il sostegno nutritivo e l’idratazione, indipendentemente dai dispositivi utilizzati, come elementi irrinunciabili, in quanto azioni rivolte al sostentamento basale del malato; elemento inscritto nelle molecole della vita e dunque, per molti, ritenuto sempre indispensabile.
In sostanza, si richiede di non confondere l’essenza e il fine di una prestazione vitale con i mezzi con cui si attua. Infatti, non possono essere ignorate le diverse condizioni in cui, in modi analoghi, vengono alimentati e idratati soggetti incapaci o divenuti incapaci di provvedere in modo autonomo: dal neonato a chi è impedito da perdita arti, paralisi deglutitoria ecc.
2) Quanto poi a stabilire se i soggetti in “stato vegetativo” permanente conservino la capacità di percepire l’immane sofferenza derivante dalla sospensione della NIA, in particolare dell’idratazione, l’uso combinato della radiologia con la moderna medicina nucleare, è in grado di consentire analisi funzionali che indicano l’esistenza di percezioni soggettive variamente ampie in questi soggetti. Il che induce a ritenere ragionevole che esista anche una percezione soggettiva (anche se l’entità è difficilmente valutabile) nei confronti degli effetti da sospensione delle NIA.
Pertanto, ne deriva la necessità di provvedere con la sedazione profonda allo scopo di contrastare l’immane sofferenza derivante dalla sospensione dell’alimentazione e, in particolare, dell’idratazione attuandosi così un provvedimento eutanasico.
Nell’ art. 4 sono tuttavia molto importanti, le norme che riguardano le modalità attraverso le quali devono essere espresse le volontà di ciascuno, nel rispetto della propria autodeterminazione.
Resta, tuttavia, il nodo irrisolto del contrasto tra due realtà che potremmo definire biologico-temporali: quella in cui il soggetto, trovandosi solitamente in stato di benessere, indica le proprie disposizioni nei confronti di una ipotetica realtà che considera biologicamente rovinosa, ignorando però quali potranno essere le proprie reazioni nel caso in cui si trovasse nella realtà paventata.
L’ipotesi si basa su una casistica ormai tale da indicare che non sempre la volontà dal malato, oggi rilevabile, anche se indirettamente, con i moderni sistemi tecnologici di neuro-imaging, corrisponde a quella ipotizzata dal soggetto stesso quando era in buona salute.
In conclusione, come accennato all’inizio, non sono poche le ambiguità e i punti oscuri: si veda, a esempio, il co. 6 dell’art.1, nel quale si impone al medico il rispetto della volontà del paziente «di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo» senza responsabilità civile o penale. Però, nel contempo, si afferma che «Il paziente non può eseguire trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali».
Si può tuttavia affermare che appare utile l’intervento di una legge, per normare giuridicamente, aspetti operativi e comportamenti ancora troppo appannaggio di libere interpretazioni individualistiche.
© Bioetica News Torino, Settembre 2018 - Riproduzione Vietata