Cure palliative: solo per i malati di cancro? Applicare i principi delle cure palliative nelle patologie non oncologiche
Introduzione
dott. Alessandro Valle
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha da tempo riconosciuto l’importanza di offrire i servizi di cure palliative ai malati che si trovano alla fine della vita, indipendentemente dalle caratteristiche della patologia di base1; purtroppo, attualmente, sono ben pochi i pazienti non oncologici che possono avvalersi di questa possibilità, sebbene le problematiche fisiche, sociali, psicologiche e spirituali siano numerose e complesse anche nella persona non ammalata di cancro.
Inquadramento del problema
Nei Paesi occidentali la durata media della vita è in continuo aumento, come effetto del “benessere” e di cure sempre più efficaci.2 I dati statistici indicano un progressivo incremento del numero di ultrasessantacinquenni in tutto il territorio europeo, anche in chiave prospettica; a questo fenomeno non sfugge la nostra “vecchia” (è il caso di dire…) Italia (Figura 1). Sfortunatamente, quantità e qualità di vita non sempre collimano: con il progredire dell’età insorgono le patologie cronico-degenerative, a volte così invalidanti da rendere assai infelice l’ultima parte dell’esistenza.
Figura 1. Proporzione di persone ultrasessantacinquenni in Europa nel 2009 e proiezione per il 2030 e il 2050, © OECD Factbook 2009. OECD, Organisation for Economic Co-operation and Development, OECD, Paris 2009
Infatti, nelle età più avanzate, la patologia oncologica non è certo il primo dei problemi: le indagini epidemiologiche indicano le malattie cardiovascolari come principali cause di morte (Figura 2).
Figura 2. Distribuzione delle cause di morte per fasce d’età in Europa. Eurostat, Public health (on-line database), Brussel 2010 url: <http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/health/ public_health/database > (accessed 1 December 2010)
Ma morire senza il cancro non significa morire senza soffrire; i disagi sopportati dal paziente affetto da patologie non oncologiche in fase avanzata spesso non differiscono da quelli che affliggono il malato oncologico3 (Figura 3).
Figura 3. Prevalenza dei sintomi nell’ultimo anno di vita, nelle patologie oncologiche e non oncologiche. I. Higginson, Epidemiological based needs assessment for palliative and terminal care, Radcliffe Medical Press, Abingdon 1997
L’European Association for Palliative Care (EAPC)4 ha pubblicato un “libro bianco” che contiene una serie di raccomandazioni per l’implementazione delle cure palliative in Europa, anche in ambito non oncologico. Non è difficile comprenderne le motivazioni, se pensiamo alla dimensione epidemiologica del problema: in questo preciso istante, in Europa, 320.000 cittadini malati di cancro e 285.000 cittadini affetti da patologie non oncologiche avrebbero bisogno di un programma di cure palliative. In altri termini, se tutti i pazienti potessero accedere ai servizi dedicati, circa il 60% di essi sarebbe affetto da malattie oncologiche ed il 40% da altre patologie.
Alla teoria si contrappone, purtroppo, una triste realtà; attualmente, sempre in Europa, i pazienti affetti da patologie non oncologiche e assistiti dai programmi di cure palliative sono meno del 5% del totale. Se poi indaghiamo quanto succede in casa nostra scopriamo uno scenario ancor più desolante: in Italia, gli stessi pazienti sono meno dell’1%.5
I motivi di queste disparità sono numerosi. Innanzitutto le cure palliative sono nate in oncologia ed è noto che, già al momento della diagnosi, nella maggior parte dei pazienti e dei loro familiari si fa strada il timore che al cancro faccia seguito la morte. Molti ammalati guariscono, molti altri si aggravano inesorabilmente, a volte dopo una fase più o meno prolungata di cronicità: in entrambi i casi si tratta di prospettive per certi versi “prevedibili”. Nell’immaginario collettivo riesce invece più difficile associare le malattie cardiocircolatorie ad una prognosi infausta. Questa constatazione è sostenuta almeno in parte dall’evidenza scientifica: a differenza delle patologie oncologiche, in cui il declino fisico della persona è in genere evidente e progressivo, le malattie cardiocircolatorie in fase avanzata si caratterizzano per una serie di gravi riacutizzazioni che, fino ad un certo punto, possono essere risolte dai trattamenti specifici d’emergenza. Di conseguenza gli operatori sanitari faticano a comprendere (e le famiglie stentano ad accettare) che la vita del paziente stia giungendo a compimento, quasi dimenticando che l’essere umano non è immortale, tanto più se gravemente ammalato.
Per altre malattie, come quelle neurologiche degenerative (sclerosi laterale amiotrofica, sclerosi multipla, morbo di Parkinson, demenza, per citare gli esempi più paradigmatici), il discorso è ancora diverso; se un ammalato morente per scompenso cardiaco o per enfisema polmonare è clinicamente simile ad un paziente affetto da tumore polmonare, la malattia neurologica degenerativa si distingue per caratteristiche peculiari ed espone famiglie ed operatori a dilemmi assai critici, anche dal punto di vista etico. Ecco quindi affacciarsi due problematiche fondamentali da considerare, strettamente correlate tra di loro: cultura della palliazione e formazione ad hoc.
Il riconoscimento dell’importanza di accompagnare una persona alla fine della vita ed i suoi familiari non è ancora un bagaglio culturale omogeneamente acquisito da tutti gli operatori sanitari. In uno studio pubblicato qualche tempo fa6 si volle indagare la qualità della morte in alcuni reparti di medicina generale di ospedali italiani. I risultati furono sconcertanti: molti ammalati, prevalentemente non oncologici, in cui la prognosi era verosimilmente inferiore alle 24 ore, vennero sottoposti proprio nelle ultime 24 ore di vita ad indagini diagnostiche del tutto futili e ad interventi terapeutici macroscopicamente sproporzionati per eccesso; contemporaneamente, in numerosi casi, gli stessi pazienti non ricevettero i trattamenti indicati per controllare i gravi sintomi che li affliggevano (come il dolore e la difficoltà respiratoria). Sorprendentemente, quando venne chiesto agli operatori sanitari di giudicare la qualità dell’assistenza fornita a questi pazienti, essa fu ritenuta buona nella maggior parte dei casi, indipendentemente dalla presenza o meno di sintomi disturbanti, quasi che il controllo sintomatologico non fosse uno dei “parametri” da tenere in considerazione per esprimere una valutazione complessiva di appropriatezza assistenziale.
L’adeguata preparazione del personale è un problema evidente, onestamente riconosciuto da chi si è avventurato nell’assistenza al paziente non oncologico senza formazione specifica; in tali casi non sempre è stato possibile garantire le cure migliori e, qualche volta, l’unità operativa stessa è stata addirittura costretta a far precipitosamente marcia indietro. Fortunatamente istituzioni e società scientifiche propongono ora corsi di formazione e master universitari finalizzati all’acquisizione delle competenze necessarie.
Esiste un ultimo punto critico, non certo in ordine d’importanza: l’organigramma dell’équipe. Prendersi cura anche dei pazienti non oncologici significa quasi raddoppiare il numero delle famiglie assistite e degli operatori coinvolti. Sappiamo che molti centri non riescono ancora a soddisfare pienamente il bisogno di cure palliative esclusivamente oncologiche.
Prospettive future
Quantunque lo scenario descritto appaia piuttosto sconfortante, la buona assistenza ai pazienti non oncologici alla fine della vita inizia lentamente a proporsi come un impegno da assolvere. Si moltiplicano le pubblicazioni ed i corsi di formazione che affrontano questo argomento, sia dal punto di vista scientifico che organizzativo e divulgativo. Nella popolazione cresce gradualmente la conoscenza delle cure palliative ed il diritto di riceverle quando occorre7.
Degno d’interesse è un recente documento8 che potrebbe aiutare gli operatori sanitari ad identificare il momento più indicato per proporre un percorso di cure palliative in ambito non oncologico, pur con le difficoltà di valutazione prognostica precedentemente sottolineate. Ciò premesso, rimane il fatto che uno dei problemi più attuali e seri consiste nel frequente, grave ritardo con cui i servizi di cure palliative vengono attivati, sebbene l’Organizzazione Mondiale della Sanità suggerisca l’esatto contrario9; pertanto, sarebbe forse preferibile eccedere per “precocità” piuttosto che giungere in visita contemporaneamente all’impresario delle onoranze funebri. Oltretutto, in alternativa all’assistenza continuativa, esistono modelli organizzativi diversi, come le consulenze, le prese in carico temporanee in fase di riacutizzazione, i ricoveri di sollievo in hospice, proprio per garantire un’assistenza flessibile in funzione dell’andamento della malattia.
L’aspetto economico è un’altra nota dolente, in particolare per chi, ragionando con una logica microambientale, perde di vista l’insieme, rappresentato dal Servizio Sanitario Regionale. Per alcuni l’attivazione di questi servizi determinerebbe infatti un ulteriore aggravio di spesa, non sostenibile nel momento storico attuale. Viceversa, le cure palliative sono uno strumento virtuoso che favorisce l’adeguato utilizzo delle risorse disponibili: le assistenze a casa ed in hospice sono di gran lunga meno onerose (e spesso più appropriate) di un ricovero ospedaliero in un reparto per acuti.
Per concludere, anche l’ammalato la cui vita volge al termine per una patologia non oncologica ha il diritto di esser sollevato dalle sofferenze fisiche, psicologiche, sociali e spirituali10. La soddisfazione di questi bisogni potrà realizzarsi soltanto se un profondo cambiamento culturale riuscirà a coinvolgere trasversalmente operatori sanitari, amministratori e società civile.
Bibliografia
1 WORLD HEALTH ORGANIZATION, National cancer control programmes: policies and managerial guidelines, Geneva 2002, 2nd ed., p. 84, url: www.who.int <http://whqlibdoc.who.int/hq/2002/9241545577.pdf> (internet 22.09.2013)
2 WORLD HEALTH ORGANIZATION, Palliative care for older people, Copenhagen 2011, Regional Office for Europe, p. 3, url: www.euro.who.int <http://www.euro.who.int/__data/assets/pdf_file/0017/143153/e95052.pdf> (internet 22.09.2013)
3 HIGGINSON I., Epidemiologically based needs assessment for palliative and terminal care, Radcliffe Medical Press, Abingdon 1997
4 RADBRUCH L., PAYNE S. et al., White Paper on standards and norms for hospice and palliative care in Europe, in «European Journal of Palliative Care», 16 (6), 2009
5 SCARABAROZZI G., PERUSELLI C., LOVAGLIO P., BELLENTANI M.D.,CRIPPA M., GUGLIELMI E. (edd.), Accanto al malato oncologico e alla sua famiglia: sviluppare cure domiciliari di buona qualità, Agenas 2013, p. 26
6 TOSCANI F., DI GIULIO P., BRUNELLI C., MICCINESI G., LAQUINTANA D., How People Die in Hospital General Wards: A Descriptive Study, in «Journal of Pain and Symptom Management», 30 (1), 2005, pp. 33-40
7 G.U. serie generale n. 65 del 19 marzo 2010, Legge 15 marzo 2010, n.38, «Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative ed alla terapia del dolore»
8 SOCIETÀ ITALIANA DI ANESTESIA ANALGESIA RIANIMAZIONE E TERAPIA INTENSIVA (SIAARTI), Grandi insufficienze d’organo “end stage”: cure intensive o cure palliative? “Documento condiviso”. Per una pianificazione delle scelte di cura, 2013, pp. 11-13
9 WORLD HEALTH ORGANIZATION, National cancer control programmes: policies and managerial guidelines, Geneva 2002, 2nd ed., p. 84, url: www.who.int <http://whqlibdoc.who.int/hq/2002/9241545577.pdf> (internet 22.09.2013)
10 G.U. serie generale n. 65 del 19 marzo 2010, Legge 15 marzo 2010, n.38, «Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative ed alla terapia del dolore»
© Bioetica News Torino, Novembre 2013 - Riproduzione Vietata