Il clamore mediatico suscitato dalla sentenza sul suicidio assistito, così come le ricorrenti voci che preludono ad una legge sull’eutanasia, richiamano l’attenzione dell’opinione pubblica sulle questioni di fine vita. Nell’immaginario collettivo sta maturando l’idea che l’unico modo per non soffrire, quando la vita volge al termine, sia quello di ricorrere a pratiche eutanasiche. Nulla di più errato e lontano dalla realtà. La Chiesa cattolica e numerosi operatori sanitari si sono dimostrati, non a caso, contrari ad ogni forma di collaborazione al suicidio nella persuasione che è moralmente doveroso soccorrere chi è in difficoltà. Questa convinzione è stata considerata da più parti una forma di «follia vitalista», un «insulso crudele accanimento».
Un attento esame delle dichiarazioni contrarie al suicidio assistito evidenzia, però, che non sono motivate dall’intenzione di somministrare trattamenti che non arrecano beneficio alla salute del malato. Sono, infatti, animate dalla convinzione che è doveroso sospendere le terapie che, non potendo più favorire il miglioramento del quadro clinico, provocano solo effetti collaterali negativi e un prolungamento precario e penoso della vita. Sono altresì determinate nel sostenere che non esiste il diritto di collaborare alla morte di chicchessia e che è doveroso accompagnare con la necessaria palliazione chi è nella fase della terminalità.
La palliazione si caratterizza per una serie di interventi sanitari destinati ad alleviare «la penosità del processo del morire». Comprendono l’alimentazione e l’idratazione, fino a quando il paziente è in grado di assimilarle; l’aspirazione dei secreti bronchiali; l’igiene e la detersione delle ulcere da decubito, l’analgesia e tutte le altre attenzioni mediche, psicologiche, sociali e spirituali che alleviano la sofferenza e migliorano la qualità della vita fino all’ultimo respiro.
Il pallium nella lingua latina è il mantello e il senso di queste cure è proprio quello di avvolgere di attenzioni il malato e di combattere tutti i sintomi che compaiono nel fine vita. La «Nuova carta degli operatori sanitari», in piena consonanza con la tradizione ecclesiale precedente, ricorda inoltre che con il consenso dell’ammalato e dei familiari e nel rispetto dei corretti protocolli etici, «in presenza di dolori insopportabili, refrattari alle terapie analgesiche usuali, in prossimità del momento della morte, o nella fondata previsione di una particolare crisi nel momento della morte, una seria indicazione clinica può comportare, con il consenso dell’ammalato, la somministrazione di farmaci soppressivi della coscienza». Queste premurose attenzioni e il sensibile calore umano aiutano il malato a non percepirsi come un peso per la società, a non invocare la morte e ad affrontare l’ultimo tratto dell’esistenza terrena con maggiore dignità.
Cecily Saunders, antesignana della disciplina, afferma infatti che l’essere umano non chiede di morire, ma di non essere lasciato solo. Altrettanta attenzione e sostegno deve pertanto essere offerta ai familiari, supportati durante tutto il periodo della malattia del loro congiunto da una adeguata assistenza domiciliare e da eventuali ricoveri temporanei di sostegno per alleviarli di tanto in tanto dai doveri di cura e per far riprendere loro le forze. Le famiglie che non sono in grado di garantire l’assistenza diretta del malato devono poter contare sulle adeguate residenze sanitarie assistenziali e, in prossimità del transito del loro parente, sugli hospice dedicati alla cura dei pazienti terminali. I sanitari a prescindere dall’appartenenza religiosa, devono quotidianamente rispondere a queste richieste, e cioè ad un accompagnamento umano e professionale al tempo stesso, ad un grido che richiede una risposta, ad un attaccamento alla vita e non alla sua negazione.
Ma qual è l’opinione dei medici che operano sul campo? «Le statistiche di alcuni approfonditi studi», afferma Giovanni Bersano, medico Responsabile cure palliative Asl TO4, «stimano che nel mondo oltre 40 milioni di persone necessitino di cure palliative perché affette da una neoplasia in fase avanzata o perché affette da malattie croniche degenerative non più responsive ai trattamenti causali. L’Oms , nel 2017, ha evidenziato come la necessità di cure palliative non sia mai stata così grande, ponendola in relazione all’invecchiamento della popolazione e all’aumento delle malattie croniche degenerative, appunto. Per quanto riguarda l’Italia la Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 38/2010, sulle cure palliative e la terapia del dolore nel biennio 2015-2017, ha evidenziato che 42.572 persone sono state ricoverate in hospice . Nell’anno 2017 e ben 40.849 sono state assistite a domicilio nello stesso anno. Tali cifre sono in costante incremento ma permane forte disomogeneità a livello regionale e locale». «Possiamo ritenere», prosegue Bersano, «che a vent’anni dalla Legge 39/1999, istitutiva degli hospice, e a circa dieci anni dalla Legge 38/2010, regolamentante l’accesso alle reti di cure palliative e terapia del dolore, il numero totale degli hospice è di 240 strutture con 2.777 posti letto. È un buon risultato, tuttavia risulterebbe ancora una carenza di 244 posti letto (considerando il fabbisogno teorico di 1 posto letto hospice ogni 56 deceduti per tumore), così come l’assistenza domiciliare di cure palliative risulta ancora molto lontana dalle 4.158.223 giornate di assistenza previste dal DM 43/2007. Si evidenzia anche un altro problema non secondario: sia in hospice che a domicilio le assistenze risultano mediamente molto brevi, per lo più negli ultimi giorni di vita».
A livello giuridico qual è la situazione? Le normative attuali parrebbero sufficienti, tuttavia è risaputa la notevole difformità dei servizi a livello regionale e, talvolta, all’interno della stessa regione, da Asl ad Asl. La Legge 38 del 2010 è stata sicuramente la più innovativa in Europa, ma in Italia sono ancora pochi coloro che, tra i cittadini, la conoscono approfonditamente. È un fatto, peraltro, che il cosiddetto vitalismo medico, la medicina difensiva e alcuni radicati limiti culturali limitano la classe medica in generale a offrire cure palliative invece di ulteriori trattamenti non appropriati nelle situazioni ormai definibili terminali o non più suscettibili di trattamenti curativi/eradicanti. Il Piemonte, che è stato all’avanguardia nel 2002 con una Dgr che regolava le cure palliative domiciliari e in hospice, ha realizzato numerose strutture residenziali e ha sviluppato i servizi domiciliari, ma si trova ancora carente sia di posti letto che di strutture domiciliari dedicate. La stessa Dgr, inoltre, non è mai stata aggiornata dal punto di vista tecnico e regolativo oltre che economico. Speriamo che ciò possa avvenire a breve essendo al lavoro una commissione formata dai referenti delle reti locali di cure palliative di ciascuna Asl presso l’Assessorato regionale.
In sintonia con tali posizioni, si pone anche Ferdinando Garetto, medico di grande esperienza che da anni lavora nel settore. Per l’Organizzazione mondiale della sanità, sottolinea, le cure palliative sono innanzitutto un diritto umano da garantire a tutti e ovunque, in ogni età, in tutte le patologie evolutive (non solo il cancro): «Non affrettano né posticipano la morte, affermano la vita e riconoscono la morte come processo naturale». Sono cura attiva e globale, da portare in équipe. Prevedono il sostegno a familiari «durante la malattia del paziente e nella fase del lutto». Lavorando in cure palliative da più di venticinque anni «posso dire che queste non sono solo belle parole o nobili intenti». Ogni giorno, nelle nostre città, sono centinaia i malati, e con loro le famiglie, seguiti in questo modo a casa e in hospice. È importante sottolineare che un’assistenza di cure palliative può durare anche molti mesi: spesso sentiamo ancora dire che «è troppo presto» o dobbiamo vincere il pregiudizio secondo cui l‘hospice è il luogo dove si va a morire e basta. A volte, invece, sono proprio le cure palliative condotte in modo attento e quotidiano ad aprire inaspettate possibilità di miglioramento. Possiamo ritenere che le cure palliative siano una risposta concreta a suicidio assistito edeutanasia? «Credo», sostiene Garetto, «che se lavori in cure palliative una frase del tipo “a me nessuno ha mai chiesto l’eutanasia” significhi non aver ascoltato i pazienti fino in fondo». Non è esperienza quotidiana, ma neanche così eccezionale, soprattutto di questi tempi. È una domanda che richiede risposte autentiche, non formali, nella proposta da parte nostra di «un’altra via», quella delle cure palliative. Nella promessa di «esserci» fino alla fine, anche aperti alla possibilità della sedazione palliativa. Quante volte, l’offerta nel patto assistenziale e della prospettiva di questa possibilità di cura, profondamente diversa dall’eutanasia con cui non ha nulla in comune, è sufficiente a rasserenare il paziente («non ho paura di morire, ho paura di soffrire») e a sostenere i suoi familiari…
Certamente, osserva Garetto, «c’è un problema strutturale: in Italia è riconosciuta la “disciplina”, ma non esiste la specialità. Non di rado si osserva una certa improvvisazione, e non escludo che per qualcuno lavorare in cure palliative sia un ripiego. Credo però che il principale problema sia di tipo culturale: in Italia le cure palliative esistono da più di quarant’anni, ma ancora oggi, di fronte ai “casi mediatici” che periodicamente accedono i riflettori, si sente ancora dire “è ora di fare qualcosa!”. E sembra che questo “qualcosa” debba essere la legalizzazione di eutanasia e suicidio assistito. Anche il dibattito sulla recente 219/2017 (che a mio parere è una buona legge) spesso si riduce a scontro fra posizioni preconcette, già si parla di superarla con leggi decisamente più estreme. Oggi sembra che parlare di “fine vita” sia una questione di essere “pro” o “contro” e che tutti si risolva compilando le proprie Dat (magari su moduli prestampati che indirizzano le scelte…). Credo che invece il bisogno più grande sia parlare laicamente ai giovani (ne abbiamo incontrati molti in questi anni), alle famiglie, alle comunità civili ed ecclesiali, di un’altra prospettiva, quella della quarta e più dimenticata delle dimensioni del “dolore globale” (fisico, sociale, psicologico, spirituale), quella spirituale appunto. I nostri pazienti e le loro famiglie ci insegnano quotidianamente a coltivare questo sguardo di senso e significato sulla malattia e la sofferenza».
«Il nostro tempo», conclude Bersano, «è un tempo di grandi cambiamenti e anche la medicina ne risente e richiede cambiamenti, qualcuno dice addirittura cambiamenti di paradigma. Se vogliamo una medicina attenta alle persone e ai loro bisogni con equità e giustizia occorre senz’altro garantire l’estensione della applicazione delle cure palliative a tutte le malattie croniche-degenerative, non solo relegarle ai malati di cancro, quindi un approccio non basato su un’ipotesi prognostica limitata nel tempo bensì sull’intensità dei sintomi, non specifiche degli ultimi giorni di vita ma precoci lungo tutto il corso della malattia. Le cure palliative devono essere applicate in tutti i setting di cura, quindi negli ospedali e negli ambulatori ma anche nelle strutture di ricovero per anziani e disabili dove la complessità dei bisogni è il criterio principale per l’intervento delle cure palliative specialistiche. Occorre quindi ancora un grande sforzo, a tutti i livelli».
La voglia di vivere e di progettare ci appartiene e ci accompagna sino alla fine della nostra esistenza pur nella consapevolezza della finitudine. La nostra fragilità chiede, anzi implora, le cure palliative, negando la cultura di morte e dello scarto troppo spesso propagandata e strumentalizzata. Tutelare la vita, in ogni forma e condizione, significa difendere la società, i valori. In una parola, l’essere umano e la sua dignità.
Note
1 tratto da «La Voce e il Tempo», Cure palliative fino all’ultimo respiro di Enrico LARGHERO e Giuseppe ZEPPEGNO, 27 ottobre 2019, pp. 12-13. Si ringrazia il direttore Alberto Riccadonna per la gentile concessione alla pubblicazione
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