Come educatori di un servizio di riabilitazione psichiatrica abbiamo lavorato per mantenere a casa gli utenti. L’obiettivo era nessun ricovero ed evitare i contagi. Abbiamo dato indicazioni per difendersi dalla pandemia e per salvaguardare la loro salute mentale. Abbiamo imparato a lavorare con la relazione telefonica, video chiamate, messaggi.
Abbiamo chiesto di stare in attesa, ma l’assenza di una scadenza ha trasformato la pazienza richiesta in irrequietezza, ansia. La gestione di questi sentimenti è faticosa e richiede tolleranza e forza. È stato così necessario sostenere e facilitare il loro tempo di attesa riempiendolo di cose da fare.
Nel primo lockdown la paura era un’emozione presente in tutti. Ma la causa era oggettiva: un virus arrivato dalla Cina, Covid 19. Una notizia più che un fatto. Pochi attorno a noi si ammalano. Poi l’estate ci ha dato l’illusione di cessato pericolo.
Sappiamo quanto ora sta avvenendo. Perché, questa volta, il virus è una minaccia più vicina e incombe in forme nuove sulla nostra vita quotidiana: ci costringe a stare da soli, ci instilla il dubbio di essere contagiosi o il timore di incrociare contagiati. Ed ecco che quella che era la paura per un virus che “faceva notizia” diventa angoscia per un pericolo che, subdolo, sentiamo attorno a noi, senza però avere gli elementi per scontornarlo, circoscriverlo, assegnarli mentalmente un luogo dove farlo stare.
Siamo nuovamente in attesa, noi operatori combattiamo ora con l’angoscia.
© Bioetica News Torino, Dicembre 2020 - Riproduzione Vietata