«il trattorista sedeva sul suo seggiolino di ferro ed
era fiero di quelle linee dritte che non dipendevano da
lui, fiero di quel trattore che non possedeva né
amava, fiero di quel potere che non aveva modo
di controllare. E quando quel raccolto cresceva e veniva
mietuto, nessun uomo aveva sbriciolato nel palmo una
sola zolla, né lasciato stillare tra le dita
la terra tiepida. […] Gli uomini mangiavano ciò che non
avevano coltivato, non avevano legami con il loro pane.»
John Ernst Steinbeck, Furore 2
La famiglia Joad, costretta ad abbandonare la fattoria in Oklahoma resa sterile dalla tempesta di polvere ― Dust Bowl ―, sospinta dal bisogno di lavoro, migra lungo la Route 66 verso terre sconosciute, ad ovest, fino alla California. Nella grande depressione americana degli anni Trenta e sul confine temporale della guerra mondiale lo scrittore americano racconta in Furore di un esodo che si rinnova da sempre e si riannoda ad altri esodi di persone che vanno e cercano. In altri tempi e luoghi.
Esodo climatico ed economico, una peregrinazione che è tragedia ed anche autodeterminazione, rigenerazione e futuro. La terra promessa, una volta raggiunta, si rivela diversa, straniera, arida di lavoro per effetto dell’industrializzazione dell’agricoltura. Scrive John Steinbeck: «Le strade pullulavano di gente assetata di lavoro, pronta a tutto per il lavoro. […] I campi erano fecondi e i contadini vagavano affamati sulle strade. I granai erano pieni e i figli dei poveri crescevano rachitici, con il corpo cosparso di pustole di pellagra…»3.
L’Autore individua in modo visionario speranza ed essenza, oltre le sconfitte, e le fissa nelle parole di Mac ne La battaglia:
«gli uomini devono imparare come possono essere forti lavorando insieme»4.
Le mani superate dalle macchine, raccontate da Steinbeck, e la fragilità del lavoro di bracciante testimoniano il rovesciamento della relazione con la terra e nuovi scenari di rapporto con il lavoro. Sono gli anni in cui Charlie Chaplin dà forma all’alienazione dell’operaio, inghiottito dagli ingranaggi dell’industrializzazione nel film Tempi Moderni5.
Qualche decennio successivo attorno all’idea della macchina si compiranno processi di delocalizzazione e aumento dell’automazione, di deindustrializzazione e riconversione, in una ricorrente estromissione di lavoratori nelle realtà post industriali dell’Occidente. In parallelo l’Occidente si fa moto di attrazione, meta di esodi tragici che da altre parti del mondo mischiano motivi economici, carestie e discriminazioni muovendo verso nuovi futuri, oltre i confini, più forti dei muri che incontrano.
Alle OGR (Officine Grandi Riparazioni) di Torino, luogo simbolico della storica fabbrica ferroviaria dismessa e recuperata nelle sue strutture architettoniche, tredici artisti internazionali con sculture, installazioni, video, performance danno corpo e pensiero alla realtà della transizione, interrogano i resti del recente passato industriale e fanno affiorare presenze e caratteri diversi nelle nuove modalità di produzione e condizioni lavorative6. È una collettiva che riflette sul lavoro e sulle sue trasformazioni, dal titolo Vogliamo tutto. Una mostra sul lavoro, tra disillusione e riscatto7 . Conduce a pensare la condizione contemporanea del lavoro, a mutare sguardo senza proporre soluzioni. L’espressione “Vogliamo tutto” rimanda al romanzo di Balestrini sulle lotte e richieste operaie dell’autunno caldo di Torino nel 1969, che rivendicavano salari, condizioni di lavoro e riconoscimento del valore del tempo non lavorativo8. All’eco di quella narrazione, che faceva emergere il rovesciamento del rapporto con il lavoro in fabbrica e l’idea del lavoro come costrizione, cosa resta a 50 anni di distanza?
Cosa vogliamo, oggi? Cosa ricerchiamo nella nostra contemporaneità fatta da realtà ormai poco abitate dalla produzione industriale, segnate dalla deregolamentazione del lavoro e dei suoi tempi, di precarietà e temporaneità, fragilità nella tutela della sicurezza, di variabilità e smart working, con confini imprecisi tra tempo del lavoro e tempo libero, per sé. Nelle molteplici e anche ambivalenti sfaccettature della condizione del lavoro, tra manualità non specializzata e innovazione digitale. E a quali diritti e valori ci rivolgiamo nel contesto post-industriale e digitale? Lo sguardo si pone sulle traiettorie di contraddizioni tra la necessità e urgenza globale di sostenibilità e la persistenza di crescita e disuguaglianze.
Il video di Kevin Jerome Everson, Century, presenta la demolizione dell’omonimo modello di automobile. Nelle sequenze della demolizione della macchina, attraverso un braccio meccanico, è evocata simbolicamente la crisi dell’industria e dell’abbandono delle comunità operaie nella Rust Belt, un tempo centro industriale degli Stati Uniti, poi segnata dal declino da metà del XX secolo9.
Con l’espressione asset stripping si intende l’acquisto di un’azienda e la sua vendita in pezzi, la sua frantumazione ai fini di guadagno. Ed è usata da Mike Nelson per rappresentare, come in una esposizione museale i resti di un’epoca passata10. L’artista britannico realizza una narrazione, anche biografica, partendo dal proprio vissuto e dai luoghi di appartenenza. Racconta il declino industriale, le fabbriche dismesse delle Midlands inglesi, l’industria pesante dell’acciaio. E lo fa trasformando le rovine nella monumentalità propria dell’essere storia. Per il carattere compositivo e la drammaticità evocativa l’installazione esposta alle OGR è stata associata a La zattera della Medusa di Théodore Géricault. Il dipinto di Géricault rappresenta i naufraghi, alcuni stremati, senza speranza, altri morti. L’installazione di Nelson, di grandi dimensioni, si compone di materiali di recupero disposti su una grande pedana di legno, sacchi a pelo schiacciati da un motore in ferro. Espone e presenta i resti dell’industria inglese, come i corpi sofferenti sulla zattera settecentesca.
I cambiamenti del lavoro che si interrompe, trasforma, si delocalizza sono indagati guardando alle paure dei suoi attori, i lavoratori e le loro famiglie. LaToya Ruby Frazier con The Last Cruze (2019) crea un’opera intorno alle fotografie e alle interviste ai lavoratori di uno stabilimento dell’Ohio, sede di una fabbrica d’auto della General Motors chiusa nel 2019.
Scatti di vita, di lavoro e privata, fissano lo smarrimento, tra rinunciare al lavoro o inseguirlo trasferendosi lontano, e costruiscono un’azione d’arte e di amplificazione a questioni di rilevanza nazionale e globale nella transizione post-industriale in Europa e negli Stati Uniti.
Cosa resta alle persone quando la fabbrica chiude e non ha più futuro nella realtà ambientale e sociale dove ha prodotto? Fabbrica e comunità sono strette nella condivisione della stessa condizione di smantellamento.
Hello, today you have day off (Ciao, oggi hai giorno libero, 2013). È la frase contenuta in un sms inviato ai lavoratori a chiamata per informarli che quel giorno non sono necessari. Non è un giorno libero, ma un giorno senza paga. L’artista Jeremy Deller lo riproduce su uno stendardo che ricorda quelli delle marce sindacali inglesi. Collega così la distanza storica, accostando gli operai di epoca vittoriana ai lavoratori a chiamata di oggi, la presenza/assenza di diritti a confronto tra società industriale e post-industriale11.
Il percorso nella mostra introduce e conduce all’incontro con il lavoro nelle variabilità della contemporaneità. Tyler Coburn con Sabots (2016) presenta due scarpe ABS, stampate in 3D12 . Gli zoccoli, sino agli inizi del Novecento simbolo del movimento internazionale dei lavoratori, qui rappresentano un prodotto realizzato da una ditta lights out, ovvero a luci spente, completamente automatizzata e senza addetti umani. Il manufatto ci interroga su dove sono i diritti del lavoro nel superamento dell’uomo dal lavoro stesso per l’avvento dell’automazione.
Nuove modalità di lavoro digitale comportano percorsi individuali di lavoro e anche nuove relazioni tra persone e nuove tecnologie. In Technologies of Care (2016) attraverso interviste a operatrici impegnate nel lavoro di cura alla persona attraverso piattaforme on line, l’artista Elisa Giardina Papa esplora la dicotomia tra empatia, cura, lavoro affettivo e lavoro digitale, immateriale, virtuale. Lavoratrici senza status e senza sicurezze, senza futuro, operano in Brasile, Grecia, Filippine, Venezuela e Stati Uniti, anonimamente e su ingaggio da società. Anche in rete permangono gli stereotipi e le disuguaglianze che associano i lavori di cura alle donne, ma già emerge l’inquietudine del valicamento di un nuovo confine: alcune figure paiono non essere persone reali, l’incerta identità si associa alla spersonalizzazione e al dubbio della sostituzione con la macchina, con l’automa.
Che cosa rappresenta il “tutto” del titolo, oggi? Su quali prospettive muove il nostro presente? Gli artisti ci conducono su questa soglia e ci lasciano pensare. Divisi tra i cambiamenti, di cui l’ambientazione della mostra testimonia ― la fabbrica vuota, cristallizzata, smantellata con ciò che resta a livello sociale e ambientale di quel mondo produttivo ― ed il lavoro digitale con le trasformazioni individuali e sociali provocate. Accanto, il permanere delle questioni del lavoro con vecchie e nuove domande nel presente digitale. Tra le urgenze di sostenibilità e giustizia climatica, le nuove frontiere di liberazione dalla fatica e creatività nel lavoro smaterializzato e il persistere nell’Occidente post industriale degli infortuni e delle morti sul lavoro, del peso del lavoro fisico, della incertezza del lavoro. Ritorna l’interrogativo iniziale sulle traiettorie di lavoro e bene-benessere e in cosa il lavoro ha ed è valore oggi nella nostra società. Cos’è il lavoro oggi e che parte costituisce del nostro essere13. E cos’è nell’altra parte di mondo, del Sud del mondo, dove alcune delle industrie si sono spostate e dove è presente una nuova industrializzazione?
1 OFFICINE GRANDI RIPARAZIONI (OGR) Torino, Vogliamo tutto. Una mostra sul lavoro, tra disillusione e riscatto, a cura di Samuele Piazza con Nicola Ricciardi, fino al 16 gennaio 2022; video su YouTube
2 JOHN STEINBECK, Furore, Bompiani 2017, pp. 50 -51. The Grapes of Wrath fu pubblicato in America nel 1959 e in Italia nel 1940 dall’editore Bompiani. L’Autore aveva tratto spunto da una serie di articoli di giornale, pubblicati nell’autunno del 1936, sulle condizioni della popolazione che aveva lasciato il Midwest, Erano i mezzadri, espropriati delle loro fattorie dalle banche dopo la crisi climatica ed erano ora i nuovi poveri che si offrivanno come braccianti nella raccolta della frutta, migranti nelle nuove terre
3 J. STEINBECK, Furore, cit., p. 395
4 J. STEINBECK, La Battaglia, Bompiani 1979, p. 50. La narrazione di uno sciopero fallimentare dei raccoglitori di frutta in una vallata californiana, in disperata lotta per il riconoscimento dei propri diritti fondamentali
5 Tempi moderni (Modern Times) del regista Charlie Chaplin, film Usa 1936, b/n
6 https://ogrtorino.it/project
OGR Officine Grandi Riparazioni – MuseoTorino Le OGR sono un grande complesso industriale torinese di fine Ottocento. Sorte nel 1884 e dismesse negli anni Novanta del secolo scorso furono luogo di tecnologia e sapienza artigiana dell’industria torinese. A fine Ottocento occupavano 2mila lavoratori. Sono state recuperate in un processo di rigenerazione urbana, per la loro bellezza imponente e per la loro posizione sul Passante ferroviario. Oggi hub dell’innovazione costituiscono un esempio di archeologia industriale, contenitore di mostre, eventi, luogo di incontro e socialità, spazio per nuove attività e start up e anche memoria del passato e del lavoro.
7 OGR Torino – Vogliamo tutto, a cura di S. Piazza con N. Ricciardi
8 Il titolo della mostra rimanda al romanzo dell’artista e scrittore Nanni Balestrini del 1971. Nanni Balestrini, Vogliamo tutto, Feltrinelli, Milano 1971
9 Vogliamo tutto | Kevin Jerome Everson – YouTube
10 The Asset Stripper è stata presentata per la prima volta nel 2019 presso la Tate Britain di Londra
11 Realizzata nel 2013, è stata esposta nel 2015 alla Biennale di Venezia
12 Vogliamo tutto | Tyler Coburn – YouTube
13 Da questo interrogativo viene da pensare alla «Camminare insieme» dell’Arcivescovo di Torino, il Cardinal Michele Pellegrino, nel 1971 e all’affermazione di riconoscere al lavoro umano un «valore superiore agli altri elementi della vita economica». Sono trascorsi 50 anni e la Lettera pastorale è richiamata in queste ultime settimane dall’Arcivescovo Nosiglia nei suoi interventi a favore del lavoro e della sua tutela.
© Bioetica News Torino, Gennaio 2022 - Riproduzione Vietata