La bioetica e la ragione illuminata dalla fede
Stephan Kampowski
Docente di Antropologia
Buongiorno a tutti e grazie per l’invito. Sono onorato d’esser qui fra voi. Insegno Antropologia filosofica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, fondato dallo stesso Giovanni Paolo II.
Imposterò il mio intervento su un passo – il n. 74 – della Lettera Enciclica Caritas in veritate, alla quale ha fatto cenno il prof. Fornero. In essa, Benedetto XVI afferma che il campo della bioetica ci mostra l’esistenza di una lotta tra l’«assolutismo della tecnicità» e «la responsabilità morale dell’uomo». Ritengo sia utile, ai fini della comprensione, esporre per intero il punto 74 dell’Enciclica, per poi richiamare, nel corso della mia relazione, le varie affermazioni in esso contenute:
Campo primario e cruciale della lotta culturale tra l’assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell’uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un ambito delicatissimo e decisivo, in cui emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l’uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio. Le scoperte scientifiche in questo campo e le possibilità di intervento tecnico sembrano talmente avanzate da imporre la scelta tra le due razionalità: quella della ragione aperta alla trascendenza o quella della ragione chiusa nell’immanenza. Si è di fronte a un aut aut decisivo. La razionalità del fare tecnico centrato su se stesso si dimostra però irrazionale, perché comporta un rifiuto deciso del senso e del valore. Non a caso la chiusura alla trascendenza si scontra con la difficoltà a pensare come dal nulla sia scaturito l’essere e come dal caso sia nata l’intelligenza. Di fronte a questi drammatici problemi, ragione e fede si aiutano a vicenda. Solo assieme salveranno l’uomo. Attratta dal puro fare tecnico, la ragione senza la fede è destinata a perdersi nell’illusione della propria onnipotenza. La fede senza la ragione, rischia l’estraniamento dalla vita concreta delle persone.
L’«assolutismo della tecnicità» e «la responsabilità morale dell’uomo» rappresentano due concezioni dell’uomo e della razionalità in gioco, particolarmente nel campo della bioetica. Infatti, la bioetica può essere considerata un vero e proprio banco di prova per la visione dell’uomo e la concezione della razionalità.
Un modo di vedere l’uomo sta nel guardare all’uomo stesso come ad un essere che produce. Ad ogni problema esiste una soluzione tecnica: la salvezza dell’uomo sta nella tecnica.
Altro modo di vedere l’uomo è l’uomo come un essere morale, aperto alla responsabilità.
Dunque, nella bioetica è in gioco la domanda su che cosa sia uno sviluppo umano integrale.
Sviluppo che tutti auspicano, ma su quali basi, su quali principi di partenza? Forse nella perfezione della tecnica, che può arrivare ad essere in grado di prolungare sensibilmente la vita dell’uomo? Forse nella manipolazione genetica dell’uomo?
Oppure lo sviluppo integrale dell’uomo sta nel suo sviluppo morale? Ossia che l’uomo, per dirla con gli antichi, diventi virtuoso? La perfezione dell’uomo sta nella virtù, nella giustizia, nella fratellanza, nella fortezza, nella purezza.
Mantenendo sempre un filo rosso con l’Enciclica, la questione fondamentale è:
«se l’uomo si sia prodotto da se stesso» oppure «se egli dipenda da Dio».
Questo è il punto.
Il modo di portare all’estremo la tendenza della biotecnologia di intendere l’uomo come prodotto da se stesso è il cosiddetto transumanesimo. Ad esempio, nella rinomata università di Oxford, esiste un Centro per promuovere il transumanesimo. Questo Centro è finalizzato alla promozione di un uomo nuovo prodotto dalla tecnologia, non dalla responsabilità morale. È la tecnologia, secondo questa dottrina, che crea l’uomo nuovo. Il concetto di base dei transumanisti è quello di condurre l’essere umano al suo sviluppo integrale. È un nuova idea piuttosto vecchia! È la manipolazione genetica, l’idea di creare un uomo fors’anche immortale, un uomo diverso dall’uomo che conosciamo. Quest’uomo nuovo non è, ripeto, un’idea nuova. Ha attraversato parte del XIX secolo ed il XX con conseguenze terribili.
La Congregazione per la Dottrina della Fede, nella Dignitas personae, al n. 27, afferma:
«Nel tentativo di creare un nuovo tipo di uomo si ravvisa una dimensione ideologica, secondo cui l’uomo pretende di sostituirsi al Creatore».
Il noto bioeticista Fukuyama, autore de «L’uomo oltre l’uomo», ha definito il transumanesimo «l’idea più pericolosa del mondo».
Perché quest’idea è pericolosa?
– Per la sua intrinseca mancanza di criteri, ossia l’impostazione della volontà arbitraria di alcuni sulla vita di altri.
Oltre la natura stessa dell’uomo, non può esserci un criterio relativo a ciò che potrebbe rendere l’uomo migliore o peggiore. L’unico criterio risiederebbe nel favorire la predisposizione di mezzi atti a manipolare l’uomo stesso. Sarebbe un dominio arbitrario della generazione presente su quella futura. Con la manipolazione genetica si crea un uomo a propria immagine, non più ad immagine di Dio. Un uomo come lo abbiamo pensato noi.
– L’altro pericolo che nasce da questa idea è quello inerente l’unità della specie.
Oggi anche i più grandi evoluzionisti atei ammettono che gli uomini, in qualità di esseri umani, sono tutti parenti. Infatti, andando a ritroso nel tempo, troveremo una madre originaria di noi tutti. La specie umana è una famiglia. C’è dunque un’unità della specie umana. Il transumanesimo, con la manipolazione del codice genetico, potrebbe spezzare l’unità della specie umana. Ebbene, così come siamo, abbiamo già notevoli difficoltà ad accettare le differenze costitutive naturali di ognuno di noi. Siamo certi che la manipolazione genetica possa produrre un’unica specie umana, superando l’accettazione delle differenze d’ogni genere, che fanno parte dell’essere umano?
La tendenza del transumanesimo è pericolosa per varie ragioni:
– rischi incalcolabili per il patrimonio genetico della specie umana;
– Hans Jonas, uno dei padri della bioetica, ci mette in guardia: rischiare «l’immagine dell’uomo» come ci è stata data significa apprezzarla poco. Chi disprezza la sua umanità non dovrebbe sentirsi qualificato per migliorarla. Se l’umanità come la conosciamo oggi non ci piace per uno svariato numero di ragioni, colui che pretende di detenere la sapienza per riformarla, dove attingerebbe a tale sapienza? Anch’egli è un uomo del suo tempo! Dunque, da dove prenderebbe la sapienza atta a migliorare l’umanità? La risposta al punto successivo, che rappresenta anche un pericolo…
– soluzioni tecniche per problemi morali. Ma la maggior parte dei problemi umani non sono tecnici, sono morali e chiedono soluzioni morali!
– poca tolleranza sociale per i meno perfetti. Già oggi vige il concetto che la vita sia degna di questo nome se utile, se capace. Altrimenti può essere soppressa. Nel momento in cui accettiamo questa logica tremenda, abbiamo già perso.
– conseguentemente al rischio espresso nel punto precedente, il valore dell’uomo non sarà più visto nel suo essere (dignità), ma piuttosto nelle sue capacità (utilità).
In contrapposizione ai pericoli, del tutto concreti, del transumanesimo, Benedetto XVI, sempre nella Caritas in veritate ci ricorda che le scoperte scientifiche e le possibilità di intervento tecnico ci impongono una «scelta tra le due razionalità»:
– «la ragione aperta alla trascendenza»,
– «la ragione chiusa nell’immanenza», chiusa al misurabile.
L’idea dell’opposizione di queste due razionalità si trova già nell’opera di Joseph Ratzinger, sin dagli anni ’60. Infatti, in «Introduzione al cristianesimo», datato 1969, Ratzinger, seguendo il filosofo tedesco Martin Heidegger, distingue tra
– «il pensiero riflettente», che si chiede del senso e del valore,
– «il pensiero calcolante», che si chiede del saper fare tecnico.
Proseguiamo nel nostro percorso attraverso gli stimoli provenienti dall’Enciclica di Benedetto XVI: «La razionalità del fare tecnico centrato su se stesso si dimostra […] irrazionale». Ed è irrazionale «perché comporta un rifiuto deciso del senso e del valore».
Perché sarebbe irrazionale rifiutare il senso ed il valore?
Perché «la chiusura alla trascendenza si scontra con la difficoltà a pensare come dal nulla sia scaturito l’essere e come dal caso sia nata l’intelligenza». Si tratta della stessa domanda che Benedetto XVI si pone nel suo discorso nella Hofburg a Vienna nel 2007. Egli si pone la domanda dell’origine della ragione, vedendo due possibilità che si escludono. Però solo una delle due opzioni garantisce la ragionevolezza della ragione. Leggiamo:
«Si tratta della questione se la realtà abbia alla sua origine il caso e la necessità», come suggerisce l’evoluzionismo e con esso ogni positivismo, che riduce la realtà a ciò che è misurabile. Per il positivismo è reale solo ciò che è in qualche modo quantificabile.
Se la questione la si pone in questi termini – ovverosia «se la realtà abbia alla sua origine il caso e la necessità» –, la ragione stessa sarebbe «un casuale prodotto secondario dell’irrazionale». Pertanto, «nell’oceano dell’irrazionalità» sarebbe anche la ragione «senza un senso». Se il razionale sorgesse dall’irrazionale, si ridurrebbe ad esso, essendo poi una mera apparenza. Ma per Benedetto XVI esiste una seconda possibilità:
«Se invece resti vero ciò che costituisce la convinzione di fondo della fede cristiana: In principio erat Verbum –In principio era il Verbo –all’origine di tutte le cose c’è la Ragione creatrice di Dio che ha deciso di parteciparsi a noi esseri umani».
Il Papa suggerisce che la novità del razionale rispetto all’irrazionale può solo essere pensata come il risultato di un atto di creazione. Senza l’idea di creazione non ci sarebbe razionalità. La ragione non è spiegabile in termini di eventi fisici, di risistematizzazioni di molecole. Infatti, per la filosofa Hannah Arendt, la creazione serve come paradigma di ciò che vuol dire un nuovo inizio, cioè la novità.
In un universo senza trascendenza, in cui tutto ciò che accade viene pensato come risultato di un parallelogramma di forze materiali, ci sarebbe soltanto l’eterno ritorno delle stesse cose. Non esisterebbe, strettamente parlando, una novità.
Per Robert Spaemann e Reinhard Löw (filosofi tedeschi) il più grande problema dell’evoluzionismo è proprio il problema del nuovo:
– come arrivare dal niente a qualcosa («big bang»)?
– come arrivare dall’inanimato all’animato?
– come arrivare dal non cosciente al cosciente?
– come arrivare al morale?
Per la razionalità tecnicista/positivista l’unica «novità» starebbe nelle diverse configurazioni dell’unica materia mondana. Un mondo senza novità, che conosce soltanto la variazione nella sistemazione delle cose, non conosce la differenza tra produzione e generazione.
Secondo la Evangelium Vitae – n. 43 –«la generazione è la continuazione della creazione».
Robert Spaemann commenta:
«La generazione è un atto che di natura, e in contrasto alla produzione, è aperto all’emergenza di un nuovo essere, un essere che coloro che l’hanno generato possono soltanto guardare con stupore, confrontati che sono con una creazione diretta di Dio».
La mentalità scientistica non vede la differenza tra generazione e produzione. Per loro non esiste niente di nuovo, esiste solo la risistematizzazione delle cose.
La generazione è il mettere nell’esistenza un nuovo essere, in particolare quando si tratta della generazione di un essere umano.
Hannah Arendt cita S. Agostino: l’uomo fu creato perché ci sia un nuovo inizio. Solo l’uomo è davvero un nuovo inizio, in quanto è principio di nuovi inizi.
Il pericolo della biotecnologia sta quindi nel suo sguardo riduttivo.
Tende a vedere la generazione come un caso particolarmente complesso della produzione. È una ragione chiusa in se stessa, senza apertura alla trascendenza, ad una verità oltre se stesso.
Per una ragione chiusa in se stessa, non esiste una verità delle cose.
La stessa idea di verità ha dei presupposti teologici. La verità è un rapporto di corrispondenza tra le cose e l’intelletto (S. Tommaso). C’è verità nell’intelletto umano se corrisponde alle cose. C’è verità nelle cose se corrispondono alla mente di Dio che le ha pensate. Se non c’è una verità delle cose, poiché non vi è un rapporto con la mente che le ha pensate, allora non c’è nessun criterio per dire che sono riuscite o fallite. È l’atteggiamento di una ragione chiusa in se stessa. Infatti, il positivismo, per definizione, vede solo ciò che è ed ha delle ripercussioni particolarmente forti per la nostra autocomprensione.
Chiediamoci dunque: esiste o non esiste una verità delle nostre azioni?
Jürgen Habermas (filosofo e sociologo tedesco) sostiene che «quando descriviamo come una persona ha fatto una certa cosa che non voleva fare (o che non avrebbe dovuto fare), noi descriviamo certo quella persona – ma appunto non come un oggetto delle scienze naturali.»
Le scienze positive vedono solo ciò che è il caso, per cui non riescono a cogliere la differenza tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. Ma per gli esseri viventi, la differenza tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere è costitutiva. Al bioeticista positivista ‘scappa’ il bios nella bioetica, ma gli sfugge anche l’ethos, in quanto l’etica ci interroga sulla vita buona, che presuppone dei criteri.
Un essere vivente è un essere che può fallire, in vari modi.
Ma il poter fallire implica uno standard, che il positivismo non potrà vedere.
Lo standard è dato dagli scopi ed interessi propri degli esseri viventi. Vivere significa esistere con interessi/scopi (H. Jonas). Ed interessi e scopi non devono essere necessariamente coscienti. Anche gli animali hanno interessi e scopi, seppur non siano esseri coscienti. La coscienza dà compiutezza alla vita e nell’essere umano interessi e scopi implicano una dinamicità che parte dal presente e si estende verso il futuro.
Il positivismo invece vede solo ciò che è misurabile adesso, vede solo il presente (slegato dal tempo nel suo complesso) e non riesce a vedere le dinamiche e le tendenze inerenti ad un essere.
Che cos’è questo?
Non lo sappiamo esattamente. Cosa vede in questa immagine il positivista, colui che ha uno sguardo chiuso nell’immanenza? Per la ragione positivista, si tratta unicamente di sei cellule.
Ma non esiste forse una verità di questo essere, che consiste nel suo essere un organismo con delle tendenze, dinamiche ed interessi inerenti?
Noi sappiamo che quel mucchietto di cellule avrà una sua evoluzione…
Ma ciò che è presente nella terza immagine rappresenta la stessa persona dell’immagine precedente e, a ritroso, le cellule iniziali sono ciò che ha dato origine allo sviluppo di questa stessa persona!
È, insomma, uno sviluppo dinamico, continuo, senza rotture.
Per vedere in questo modo, occorre avere uno sguardo che non guarda unicamente al momento presente, ma che è aperto al futuro. Uno sguardo che consente alle cose, nel tempo, di svilupparsi. Dunque, tendenze verso nonché scopi ed interessi che possono essere raggiunti o mancati, non si lasciano misurare. Sfuggono dallo sguardo oggettivante di un puro matematico, al quale scappa anche un fenomeno apparentemente così banale come il metabolismo (H. Jonas).
Metabolismo significa che lungo il tempo un organismo cambia tutta la sua materia costitutiva. Le cellule che ho in questo momento non sono più quelle che avevo né quelle che avrò. In che modo l’organismo rimane lo stesso malgrado il processo metabolico? La filosofia offre un contributo alla biologia, affermando che esiste qualcosa che si chiama forma, forma dell’organismo. Permane la forma vivente. Ma la forma non si lascia misurare. La forma è ciò che fa la differenza tra un essere vivo ed un essere morto. La forma, ripetiamolo, non si lascia misurare…
Occorre dunque credere in Dio per poter cogliere il fenomeno della vita, per poter ammettere che ci siano scopi ed interessi, per poter vedere che esiste una differenza tra generazione e produzione?
Queste convinzioni hanno una loro evidenza interna ed immediata nell’esperienza. Questo è vero. Per la maggior parte, basta aprire gli occhi a queste evidenze.
Lo sguardo oggettivante del positivista, invece, non ci è naturale.
Allo stesso tempo, tutto questo ha un presupposto teologico profondo. E cioè che la nostra ragione sia aperta al senso, che essa possa andare oltre al misurabile. Questo sarà possibile solo se la ragione proviene da un principio che è oltre «il caso e la necessità» (J. Monod).
Non tutto è prodotto del caso e della necessità.
Per dirla con Benedetto XVI, la nostra ragione è aperta al senso solo se è vera la convinzione fondamentale del cristianesimo: in principio erat Verbum.
Vi ringrazio per l’attenzione che mi avete dedicato.
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