Le parole chiave che ruotano tra loro questa esposizione sono cura, virtù, disabilità, bioetica e accademia.
Una definizione di Accademia
Primo. Una definizione. Accademia inizialmente era il nome di una località presso Atene, dove Platone cominciò a insegnare nel 387 a.C. Il termine passò a indicare la comunità formativa e la corrente ortodossa del pensiero platonico, una corrente distinta in periodi, la quale dovette far fronte alle divisioni interne e alle obiezioni esterne nei confronti del grande fondatore. Da lì il nome indicò ogni associazione o gruppo di studiosi, che per statuto si impegnano a promuovere le lettere o le scienze.
Ma l’uso linguistico segnala anche, ironicamente, una possibile deriva. “Fare accademia” è una deviazione stucchevole rispetto al vero lavoro in accademia, è un vizio (contrapposto alle virtù), il vizio del virtuosismo, del discorso vuoto e improduttivo, dell’erudizione inutile. Si tratta di un handicap, di un deficit di performance purtroppo assai diffuso.
La cosa riguarda anche la bioetica. In effetti la bioetica attuale soffre di accademismo: è diventata – si dice – il terreno di scontro tra ideologie traballanti (laicismo a oltranza contro integralismo religioso), funge da salotto buono per il maquillage di istituzioni poco trasparenti, ammanta di retorica alcuni luoghi comuni (come: il corpo è un mio possesso, la vita fisica è sacra, e simili). Si parla molto di bioetica, si fa molto poca bioetica nei luoghi e nei tempi in cui si dovrebbe. Non si offre consulenza etica dentro i luoghi di cura, non si aiuta il cittadino a rivolgere in prima persona istanze critiche verso sedicenti esperti, ci si auto-battezza bioeticisti sulla sola base dell’anzianità clinica, come se la saggezza fosse una qualità intrinseca del chirurgo in pensione o del vecchio tout-court. Sono davvero saggi i centenari? Rimando al capitolo 13 del libro di Daniele dove è narrata la vicenda di Susanna e i vecchioni, presentati come voyeur falsi che meritano di venir mascherati.
L’etica delle virtù (inevitabile parlarne dato che si è accennato alla saggezza) contesta l’etica dei principi, le etiche utilitariste, ma anche le etiche degli imperativi, perché ribalta la domanda centrale: non “che cosa devo fare” qui e ora, in base alle regole categoriche oppure in base alle conseguenze. Ma piuttosto: “chi voglio essere”. Quale modello di operatore sociosanitario mi guida nel corso del training? Quale idea di sofferenza ritengo degna e quindi accetto di vivere, da malato? Quale figura di disagio invece rifiuto? Quale forma di impostura, di impazienza, di incuria detesto? Quale tipo di genitore prometto di essere, ora che mi trovo ad aver cura con un figlio con disabilità? Onoro mia madre (la mia principale care-giver) se interrompo la fisioterapia, che tutti mi hanno consigliato, in base al fatto che forse sono un maledetto “diverso”, dato che tutti mi guardano come un mostro e io allora non ci sto, non voglio curarmi, in un mondo così non intendo vivere?
Legata alla nozione di virtù sta la galassia delle etiche della cura. Consiglio la lettura del “mito di Cura” nelle pagine di Sein und Zeit pubblicate dal filosofo Martin Heidegger nel 1927. Consiglio anche la parabola del buon samaritano, uno straniero che non gira la faccia dall’altra parte quando vede un povero diavolo maltrattato da briganti: lo trovate al capitolo 15 del vangelo di Luca. Il samaritano ne ha compassione (a proposito, compassion non è il compatimento), lo carica sul suo giumento e si prende cura di lui. Qualcuno dice che Luca fosse un medico. Certamente scriveva molto bene. Epimelèia è il sostantivo greco (dal verbo mèlo) in Luca 10, 15: sta per sollecitudine, attenzione, preoccupazione per il debole.
Belle parole? Accademismo? Niente affatto. La “mia” etica della cura è un’architettura di pensiero che riposa su queste storie dell’origine, su queste idee di vita buona, su queste immagini di giustizia e ne tira almeno tre conseguenze. La prima è che la cura per l’altro è la condizione grazie alla quale si diventa autonomi. Contro la diceria che si è liberi se si è senza l’altro, indipendenti dall’altro, padroni integrali di sé, privi di senso di debito e ovviamente liberati da ogni senso di colpa. E contro la falsa congettura che, ragionando come se Dio non ci fosse (quindi messo definitivamente da parte un inutile dio), non ci sarebbero conflitti, non ci saranno più guerre.
Al contrario, non ho motivi convincenti per dir di sì alla vita, se non faccio esperienza di un “attaccamento sicuro”, se non nutro fede in un volto buono del mondo, se nessuna speranza gonfia le vele della mia barca. Nessuna parola, da sola, mi convincerà. Come accade nel romanzo teatrale di McCarthy, Sunset Limited. Dio! impreca il Nero, perché non mi hai dato le parole giuste per convincere lui, il professore Bianco, a non buttarsi più sotto le rotaie di quel maledetto treno, il Sunset Limited, da cui oggi l’ho salvato per caso? Il Bianco non è né malato, né porta handicap, ma disprezza il mondo ed è appena uscito dal piccolo appartamento del Nero, è uscito disilluso come vi è entrato.
Finitezza, fragilità e dipendenza
Due. La finitezza, la fragilità, la dipendenza (Abhängigkeit) non sono le tare ereditarie da cui la medicina tecnologica e l’ingegneria genetica ci liberanno. Esse ci libereranno, lo speriamo, dalla malattia, dalla diagnosi infausta, dalla morte. Ma non per regalarci la leggerezza di uno spirito che si libra nell’aria. Ma per darci carne viva, come quella di cui hanno nostalgia gli angeli, in cielo, sopra Berlino. Avremo sempre un “sapore di ruggine e ossa” (per citare un altro film). E avremo desiderio dell’altro e desiderio di essere desiderati. A meno di questo, nessuna legge morale, con buona pace di Kant, si renderà visibile a noi e ci riempirà l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente. Non si contempla il cielo stellato senza la memoria di un amico, senza la speranza di parlarne ad altri. Come potrei sapere che ciò che mi dà felicità è anche degno davanti a tutti?
Una patologia diventa disabilità in un contesto sfavorevole
Tre. Una patologia diventa disabilità in un contesto sfavorevole. Poteva non diventarlo, perché il cosiddetto buon funzionamento (come quello richiesto dal DSM psichiatrico) è tutt’altro che descrivibile “oggettivamente” ed è invece colorato dei valori dominanti in una certa epoca. Come insegna la storia dell’omosessualità nelle nosografie. Come insegna l’inacciuffabile nozione di “qualità di vita”. Cura per l’altro – eccoci al punto – implica aver cura di sé anzitutto perché ciascuno di noi, prima o poi, in certe situazioni sbatte contro le barriere sociali, che prima (da “sano”) aggirava agevolmente. Il motivo? Le abilità (skills) sempre limitate di numero e intensità. Basta cambiare un parametro ambientale (fisico o culturale) e la tua debolezza diventa sickness, non ce la fai a lavorare, ad amare, a giocare a carte. E la sickness produce un impasse che si fa disease vero e proprio, quel disease per cui troviamo sempre pronto un medico (ma forse dovremmo chiamarlo iatro-tecnico) che ti fa la diagnosi quotidiana: sei inguaribile (chiunque tu sia) ma un po’ curabile.
Sì, perché la cura non mira ad una restitutio ad integrum dell’apparato, ma ad un ampliamento del repertorio di tattiche problem-solving, in quanto la salute è normatività, avrebbe detto Canguilhem, è la capacità di dettare nuove norme all’ambiente, all’ambiente del mio corpo, all’ambiente della mia casa, all’ambiente della città. E’ la città sana che si abbassa a me, che assume il punto di vista “politico” di chi non può scalare le comuni barriere.
Etica della cura (nella cura dei soggetti con disabilità) è immaginare e siglare nuovi patti, instaurare nuove figure di prossimità. Non si tratta di bon ton o di differenza femminile. Per Heidegger, Prometeo era “der Sorger”, colui che ha cura, colui che con forza virile ruba agli dèi il fuoco per regalarlo agli uomini. Così scontò la condanna di Zeus restando incatenato sul Caucaso, fino al giorno in cui Ercole lo liberò. Il volto maschile della cura reclama una parità al contrario. Una parità per l’abilità diversa di ognuno e quindi di tutti.
Il testo è stato presentato on line il 13.11.2023 nel corso di un Modulo della scuola dell’Accademia di Bioetica della Svizzera italiana, intitolato “Etica e Disabilità”.
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Voce “Dipendenza”, a cura di G. Giannini, in: Enciclopedia filosofica, Milano, Bompiani, 2006, p. 2929.
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