Abstract
Il consenso informato, nella pratica clinica, è nato come strumento applicativo del principio di autonomia sul quale si fonda la bioetica laica. Esso è supportato da contenuti giuridici quali l’inviolabilità della dignità dell’uomo e del diritto all’autodeterminazione, nonché filosofici quali i concetti di persona, libertà e volontà.
Dal punto di vista giuridico il consenso informato assicura il rispetto dei diritti dell’individuo, sul piano concettuale è lo strumento attraverso cui il malato assume un ruolo attivo con gli operatori sanitari nel rapporto di cura ovvero nella relazione terapeutica, ma nella realtà troppo spesso viene chiuso nell’ambito di una medicina difensiva in cui assume la valenza giuridica di garanzia per l’operato dei medici.
Alla luce della considerazione che l’esercizio del principio di autonomia ha come presupposto irrinunciabile una corretta e completa informazione del malato, è stata condotta un’indagine con l’obiettivo di chiarire il percepito dei pazienti ospedalizzati rispetto alla qualità del consenso sottoscritto.
Bioetica, consenso informato e principio di autonomia: studio sul grado di informazione percepita in un gruppo di pazienti ospedalizzati
Nell’incontro con la persona malata l’operatore sanitario non ha di fronte una tabula rasa. I condizionamenti culturali che ciascun individuo porta con sé più o meno consapevolmente si esprimono attraverso i gesti, le azioni e il linguaggio, l’evidenza maggiore della soggettività del paziente, che non può e non deve essere ridotto a pura oggettività. In tale prospettiva diventa fondamentale la qualità della comunicazione. L’operatore sanitario che non voglia limitarsi a interventi tecnici può trovare attraverso il dialogo lo strumento adatto a stabilire una reale alleanza rispondendo alle necessità cliniche nel rispetto dell’autonomia e della libertà di scelta della persona assistita.
Abbiamo scelto di condurre un’indagine sulla qualità dell’informazione fornita e sulla libertà nell’esprimere il consenso, in persone ospedalizzate e nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali.
Obiettivo
Il nostro obiettivo era valutare il livello di comprensione percepita e la qualità dell’adesione sottoscritta.
Materiali e Metodi
Il lavoro è stato condotto nell’arco di circa due mesi. Rispettando i criteri etici, sono stati arruolati 30 pazienti ricoverati in un reparto di medicina, sottoposti durante il ricovero ad indagini diagnostiche e a trattamenti per i quali era necessario il consenso informato. Di ciascun paziente sono stati registrati il grado di istruzione e l’attività lavorativa svolta. Le caratteristiche del campione sono riassunte nella tabella 1.
Tabella 1 – Descrive le caratteristiche del campione: età, sesso, istruzione, impiego, patologia e consapevolezza della diagnosi e della prognosi
Ad ogni paziente è stato sottoposto un modulo del tutto analogo a quello già precedentemente firmato per eseguire l’indagine o il trattamento. È stato poi richiesto di evidenziare graficamente i termini sconosciuti o i vocaboli poco chiari contenuti nel modulo di consenso e di valutare, rispetto alla procedura proposta, le informazioni ricevute in reparto, le informazioni ricevute dai tecnici esecutori (quando previsto), la libertà di scelta percepita e la fonte dell’eventuale condizionamento.
Queste valutazioni sono state riportate in una scala di valori 0-1-2 (nulla-abbastanza-molto).
Per l’elaborazione statistica dei dati è stato utilizzato un programma informatico commerciale (Statistica per Windows). Per le correlazioni fra dati è stato applicato il test di Spearman per dati non parametrici, accettando come livello di significatività una p < 0,05.
Risultati e Discussione
Ci è sembrato opportuno commentare i risultati del lavoro analizzandoli da tre prospettive differenti e ugualmente rilevanti, che focalizzano l’attenzione su quanto i pazienti ritengano di aver compreso le informazioni loro fornite, quanto si siano sentiti condizionati nelle proprie scelte e, infine, sul grado di consapevolezza della diagnosi e della prognosi della loro malattia.
A. Comprensione percepita
Dall’elaborazione dei dati graficamente riportati risulta che il grado di comprensione delle informazioni desunte dal modulo di consenso è giudicato almeno sufficiente dal 77% del nostro campione ed appare chiaramente correlato al grado di istruzione dei pazienti. Entrambe le evidenze sono coerenti con i dati riportati in letteratura. Una tendenza del tutto simile si coglie rispetto alla quantità/qualità delle informazioni che i pazienti hanno ricevuto, tanto in reparto quanto presso le sedi di esecuzione della manovra, quando previsto.
In linea con il livello di scolarità della popolazione ricoverata in ospedale nella nostra Regione e, in generale, nel territorio nazionale, nel nostro campione, il 67% dei pazienti (20/30) ha un grado di istruzione globalmente corrispondente alla scuola dell’obbligo, cioè licenza elementare o media inferiore, mentre il 20% (6/30) ha conseguito un diploma di scuola superiore e solo il 13% (4/30) è laureato.
Occasionalmente, tre dei quattro laureati erano medici. È parso ininfluente che il paziente fosse o meno alla prima esperienza specifica: infatti 8/9 pazienti che hanno dichiarato un buon grado di comprensione percepita erano sottoposti per la prima volta alla procedura loro proposta.
Le parole “difficili” sono molte, appartengono prevalentemente al linguaggio tecnico e non sono equamente ripartite nella modulistica presa in considerazione (Tabella 2).
Tabella 2 – Numero di parole difficili segnalate sui moduli
La difficoltà nel comprendere la terminologia utilizzata nei moduli è inversamente proporzionale al grado di istruzione. In altre parole, come prevedibile e coerentemente con la letteratura, sembra emergere che le persone più istruite comprendano meglio le informazioni loro trasmesse. Più inquietante appare il fatto che vi sia un’analoga corrispondenza con la quantità e qualità di informazioni trasmesse dagli operatori: come dire che proprio i pazienti che possiedono strumenti cognitivi più deboli sono ulteriormente penalizzati da una comunicazione meno attenta (Tabella 3).
Tabella 3 – Sono riportate le analisi di correlazione tra il livello di istruzione dei pazienti e il grado di informazione e di comprensione percepito
A tal proposito, la letteratura suggerisce l’utilità di una comunicazione più accurata e meno frettolosa da parte di medici e infermieri e propone l’impiego integrativo di strumenti tecnologicamente avanzati, come gli audiovisivi, che migliora comunque la comprensione.
B. Libertà di scelta
Tra i pazienti intervistati, poco più della metà (16/30) ritengono di avere compiuto le loro scelte con una libertà almeno sufficiente (grado 1 e 2).
Tutti i pazienti (30/30) riferiscono di aver subito un apprezzabile grado (cioè non 0) di condizionamento da parte degli operatori sanitari (medici e infermieri) del reparto di degenza e, in minor misura, a causa della malattia.
Di più, la maggior parte dei pazienti (21/30, pari al 70%), ha dichiarato che il grado di condizionamento esercitato da parte degli operatori sanitari era elevato (grado 2). (Tabella 4)
Tabella 4 – Si riporta la correlazione tra la libertà di scelta percepita e il grado di istruzione, informazioni ricevute, consapevolezza della diagnosi e della prognosi
I tre pazienti laureati in medicina, affetti da patologia oncologica e consapevoli almeno della diagnosi, hanno dichiarato un forte condizionamento (grado 2) tanto da operatore quanto da malattia.
Questo confermerebbe la tesi secondo la quale il rapporto privilegiato che si instaura tra pari (medici) entra in crisi nel momento più difficile, turbando il processo di costruzione dell’alleanza terapeutica.
Pur considerando che i dati trasmettono il vissuto dei pazienti, o forse proprio per questo, la sensazione di costrizione che sembra emergere deve far riflettere profondamente sulla qualità dei processi comunicativi, poiché i pazienti coinvolti nello studio hanno dichiarato, quasi unanimamente, di non aver ricevuto proposte alternative.
Esistono studi e ampie revisioni della letteratura, che evidenziano come il non prospettare alternative sia uno degli ostacoli maggiori ad una corretta e totale applicazione del principio del consenso informato quale strumento di garanzia dell’autonomia dei pazienti.
C. Consapevolezza della diagnosi e della prognosi
Emerge una notevole differenza nella consapevolezza della diagnosi e della prognosi tra pazienti oncologici e pazienti affetti da altre patologie, come ben evidenziato dalle figg. 8-9. Dei pazienti affetti da patologie oncologiche solo 11/19 erano stati informati della diagnosi e tre di loro erano, come abbiamo detto, medici. Tra i pazienti affetti da patologie non neoplastiche, uno solo non era a conoscenza della diagnosi: in questo caso però l’iter diagnostico non era ancora ultimato.
Per quanto riguarda la prognosi, la maggior parte (15/19) dei pazienti oncologici e circa un terzo (4/11) dei pazienti affetti da altre malattie non ne erano a conoscenza.
Infine, tutti i pazienti ignari sia della diagnosi che della prognosi avevano un basso grado di scolarità. Questo dato può essere letto ancora una volta come la difficoltà a trovare strumenti adatti a migliorare la comunicazione con chi presenta maggiori difficoltà, ma – ed è la sensazione prevalente di chi scrive – può essere piuttosto l’espressione di un atteggiamento mentale di rinuncia.
Tutto questo assume ancor maggiore importanza alla luce del forte legame che sembra emergere tra consapevolezza della prognosi e non della diagnosi) e libertà di scelta (Tabella 5).
Tabella 5 – Riporta la patologia e la consapevolezza di diagnosi e prognosi
Conclusioni e prospettive
Alla luce di quanto è stato detto sui fondamenti teorici del principio dell’autonomia, il principio del consenso ha significato solo se libero, consapevole e informato. Di fatto, quindi, una parte considerevole dei nostri pazienti, si vede sottratto il diritto all’autodeterminazione.
Dunque il consenso non esiste? O forse ha ragione chi afferma che l’autonomia del malato non è realizzabile o, almeno, è seriamente compromessa dalla condizione di malattia? Certo è che il risultato di questa piccola ricerca pone alcuni spinosi interrogativi, specialmente per chi, come chi scrive, vive la quotidianità imprevedibile di un reparto di medicina.
È quindi opportuno riflettere su quanto una corretta e completa trasmissione delle informazioni resti ancora un tabù nella comunicazione della diagnosi specialmente delle patologie oncologiche, trasformando automaticamente l’assenso del paziente a fornire informazioni a terzi un’autorizzazione a comunicare la diagnosi, e soprattutto la prognosi, ad altri diversi dall’avente diritto.
Negli USA, dove il “sistema” è particolarmente severo, esiste dal 1966 la «Freedom of Information Act», emendata nel 1974 e nel 1996 dove il cancro è l’unica malattia citata la cui rivelazione a terzi costituisce reato di violazione della privacy. La diagnosi di questa malattia può essere comunicata solo ed esclusivamente alla persona interessata, per problemi legali e assicurativi.
Su un piano più concettuale, si può supporre che quest’incoerenza sia figlia del modello occidentale che induce a sognare un mondo irreale senza difetti. In modo evidentemente stridente con questa visione il cancro resta la metafora dell’espressione più evidente dell’imperfezione umana, la morte.
In generale sembra che il consenso, per indagini diagnostiche o per manovre terapeutiche tutto sommato di impiego comune, sia acquisito a seguito di un pressante intervento degli operatori, più che spontaneamente reso dai pazienti in un clima di cooperazione ed alleanza.
Siamo ben consapevoli che il lavoro illustrato contiene alcuni limiti: il campione dei pazienti è limitato, l’elaborazione dei dati è, ragionevolmente, più descrittiva che statistica e le conclusioni vanno tratte con la dovuta cautela. Tuttavia, riteniamo che le indicazioni che ne emergono non debbano essere sottovalutate. L’impressione che si trae dai feed-back che i nostri pazienti hanno mandato è ancora quella di due mondi, ben descritti da Freidson, lontani, dove i detentori della conoscenza non si premurano di utilizzare i mezzi in loro possesso per trasmettere con delicatezza e rispetto le informazioni che riguardano la vita altrui.
Franco Basaglia affermò che la famiglia, la scuola, la fabbrica e l’ospedale sono istituzioni basate sulla netta suddivisione dei ruoli, connessa alla frammentazione del lavoro: «[…] Ciò significa che quello che caratterizza le istituzioni è la netta divisione tra chi ha potere e chi non ne ha».
Questa visione, a suo tempo, fu di grande rottura, ma sembra adattarsi bene a quanto detto sin qui e trova conferma nella vicenda dei nostri tre pazienti medici, che vivono la medesima frustrazione degli altri malati: la cesura che la malattia ha prodotto nella loro vita ha messo in discussione anche il loro ruolo sociale originale, sostituito da un altro, quello subalterno del malato.
Perché il diritto all’autodeterminazione sia reale, occorre innanzi tutto che il malato sia informato e consapevole della propria situazione, delle caratteristiche dei trattamenti, dei possibili rischi e delle eventuali alternative ai trattamenti proposti, in un rapporto fondato sulla lealtà.
Una verità negata, se non si vuole fare esercizio di retorica, costituisce una menzogna. Se il processo comunicativo con il malato non si basa sulla verità non può che aumentare la separazione tra il malato e il resto del mondo:
Il maggior tormento di Ivan Il’iĉ era la menzogna che lo voleva malato, ma non moribondo, una menzogna accettata da tutti, chissà perché […]. Questa menzogna lo tormentava, lo tormentava il fatto che non volessero riconoscere che tutti sapevano e che anche lui sapeva, e che volessero invece mentire sul suo terribile stato, e che per di più costringessero lui stesso a prender parte a quella menzogna.
La malattia è una condizione che ciascuno ha il diritto di vivere in tutte le sue fasi e così pure la morte. La psicologia insegna che ogni cambiamento importante nella vita degli individui è seguito da un periodo, a volte anche durevole, di adattamento. Anche nella malattia avviene questo. Quanto possa essere complessa o semplice la fase di adattamento può dipendere da molte variabili, tra cui le caratteristiche individuali e la gravità della malattia.
Elisabeth Kübler Ross ha descritto cinque fasi caratteristiche (rifiuto/negazione-rabbia-patteggiamento-depressione-accettazione) attraverso le quali avviene il processo di accettazione della condizione di malattia. Perché questo accada occorre evitare pericolose situazioni dissociative tra le evidenze fisiche e illusori messaggi rassicuranti.
Il codice deontologico degli infermieri è molto chiaro su questo punto e ribadisce in molti articoli il dovere professionale di ascoltare, informare e coinvolgere il malato per valutare insieme a lui i suoi bisogni e facilitarlo nell’esprimere le proprie scelte, accettando anche il desiderio espresso di non essere informato. È chiaro che una reale alleanza si può costruire solo con un’elevata attenzione alla persona, attraverso processi che favoriscano la conoscenza del mondo del paziente e della sua scala di valori. Per garantire e riconoscere la dignità e l’autonomia della persona malata è necessario saperne interpretare e soprattutto accogliere i bisogni, per poterne sostenere le scelte piuttosto che promuoverne banalmente l’adesione alle proposte terapeutiche.
Da queste considerazioni si possono trarre indicazioni e stimoli utili a ridefinire la realtà del rapporto con il paziente in modo più aderente ai principi bioetici con i quali, sul piano teorico, tutti concordiamo.
Ringraziamo per la collaborazione:
Pierangela Bertolo – AOU San Luigi Gonzaga
Giangiacomo Osella – AOU San Luigi Gonzaga
Massimo Terzolo – AOU San Luigi Gonzaga
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