Introduzione
Una cinquantina di relatori erano presenti alla conferenza internazionale di Bioetica dell’Università di Malta, organizzata dal prof. Raymond Zammit, direttore del dipartimento di Teologia morale con la consulenza scientifica del prof. Pietro Grassi, docente all’Apollinare e al Master di Bioetica presso il Pontificio Istituto “Giovanni Paolo II”, in quattro giornate dal 5 all’8 maggio 2022, intitolato Bioetica e il paradosso delle apparenze: fragilità, dipendenza, disabilità nelle varie stagioni della vita.
Le loro diverse competenze ‒ molti sono di fama internazionale ‒ e le realtà accademiche e professionali dei paesi da cui provengono, dall’Italia alla Svizzera a Malta, dalla Francia al Marocco al Canada, dal Brasile al Messico e al Cile, hanno arricchito con specifici contesti culturali il discorso sulla disabilità, sondata nelle sue molteplici rappresentazioni, specchio dell’umanità, della nostra esistenza.
La fragilità e la vulnerabilità nelle loro diverse espressioni sono state al centro di approfondimenti, riflessione e analisi sui bisogni assistenziali, di cura, relazionali, spirituali, di integrazione nella comunità, di ricerca medica, facendo emergere prospettive e criticità odierne attraverso una pluralità di voci legate, per motivi diversi, alle persone con disabilità, compreso l’ascolto di queste ultime attraverso testimonianze e associazioni.
Due anni fa, il primo convegno internazionale di Malta, anch’esso in video-conferenza, era dedicato ai cinque sensi in cui veniva richiamata l’attenzione della cura nelle sue diverse accezioni sul corpo nel suo legame con la realtà che lo circonda, i cui atti sono stati pubblicati nel volume edito da Tau edtrice, dal titolo La bioetica e i cinque sensi: tra pratica clinica e metafore.
Direttore del Dipartimento di Teologia Morale presso la Facoltà Teologica dell’Università di Malta. Laureato in Filosofia e Psicologia ha proseguito gli studi conseguendo la licenza in Teologia Sacra presso il medesimo Ateneo, all’Accademia Alfonsiana di Roma la licenza in Teologia morale con specializzazione in Bioetica e il dottorato di ricerca. Presiede la piattaforma accademica «Etica professionale» a Malta ed è membro del gruppo di bioetica del COMECE (Commissione delle Conferenze episcopali nell’Unione Europea).
Docente all’ISSR all’Apollinare Pontificia Università della Santa Croce, al Master di Bioetica del Pontificio Istituto Teologico “Giovanni Paolo II” di Roma. Dopo studi di BA, MA e Dottorato in Filosofia, BA, MA in Teologia, in Psicologia (Diploma – MA) e Neuroscienze (Certificato) si è perfezionato in Bioetica, in Migrazione e Psicopatologia, Storia della Medicina e Storia della Psichiatria. Fa parte del Comitato scientifico della Rivista «Italia Etica» dove è responsabile del Settore Scienze Filosofiche e del Comitato scientifico della casa editrice Aracne di Roma per la collana “Neo-Existential Anthropology”.
INTERVISTA.
D. Prof. Raymond ZAMMIT e Prof. Pietro GRASSI che cosa vi ha spinto a realizzare un convegno di così ampia portata su un tema così delicato, complesso, variegato quale è disabilità e fragilità, ricco di questioni etiche e ora che si è concluso, potreste offrirci un breve ‘excursus’ riflessivo sugli argomenti trattati nelle quattro sessioni della conferenza internazionale tenutasi dal 5 all’8 maggio di quest’anno?
R. Il motivo che ci ha spinti ad organizzare un convegno internazionale intorno al tema della disabilità è stato l’aver constatato che non esiste in natura vita in cui non si sia mostrata in qualche modo la fragilità, di cui la disabilità è una delle manifestazioni. Questo si verifica sia nel regno vegetale che per gli animali e gli uomini. Nessuna specie vivente sembra poterne essere esclusa.
Perché il tema della fragilità e della disabilità? Perché crediamo che riconoscere la fragilità, quella degli altri e la nostra, forse può essere fonte di un rinnovamento individuale e collettivo da permettere di costruire delle relazioni profonde. La nostra umanizzazione passa attraverso la nostra fragilità. Il nostro tempo sembra essere attraversato da dei movimenti contraddittori che ci portano da un lato verso i vantaggi della solidarietà e della riconoscenza e dall’altra ancor più verso l’esclusione e l’intolleranza.
In questo senso si può comprendere meglio la scelta del tema, vista come possibilità di fornire uno spazio in grado di accogliere non solo relazioni e dibattiti, ma anche vissuti, emozioni, sentimenti, capace di offrire una fruizione piena e consapevole ad un uditorio ampio ed eterogeneo. Le parole che hanno attraversato il Convegno sembrano continuare a dialogare e ad inseguirsi tra loro: le parole delle persone disabili e quelle di chi si prende cura di loro, per non smarrire la nostalgia di una parola e di una presenza forte quando la vita mostra le sue defaillance.
D. Prof. Pietro GRASSI, la disabilità viene chiamata in causa sin dall’inizio della vita in grembo o su vitro con gli embrioni congelati sulla qualità di vita degna di essere vissuta e nell’approccio bioetico utilitaristico che discrimina i nascituri e disabili come esseri non senzienti. Quel suffisso negativo “dis” dinanzi alla parola abile comporta, come ha fatto osservare la Convezione Onu sui diritti delle persone con disabilità del 2007, una responsabilità sociale nell’eliminare le barriere di impedimento a far parte della vita comunitaria.
Ė possibile ripensare ad un approccio diverso nei confronti delle persone con disabilità non semplicemente sottraendole dall’etichetta di “diverso” dalla normalità? Nella sua relazione ha affrontato la questione sotto il profilo etico- filosofico della complessità del mondo della salute, nella relazione “Il confine tra il normale e il patologico: chi lo decide?“
R. Un aspetto peculiare del nostro modo di essere e di funzionare, sia fisico che mentale, può essere patologico in un certo luogo e normale altrove, o normale in questo momento e patologico in un tempo passato. Quando si traccia un confine tra normale e anormale, la definizione indica in particolare chi è in grado di adattarsi agli ideali e alle ideologie della norma sociale del momento. Non si può fare riferimento quindi ad una ‘normalità assoluta’.
Ci si potrebbe chiedere se la patologia sia una modificazione quantitativa dello stato normale oppure un cambiamento qualitativo, o entrambe le cose. Ed ancora se lo stato patologico possa essere definito solo in relazione ad una normalità oppure presenta una sua entità. Il normale e il patologico sembrano intrecciarsi continuamente in modo chiasmatico.
Nessuno è normale ventiquattro ore su ventiquattro e nessuno è ‘matto’ ventiquattro ore su ventiquattro. Questa contiguità fra normale e patologico fa entrare in crisi le categorie di sano, naturale, funzionale. Da un lato, il normale risponde alle condizioni necessarie per l’esistenza del concetto di patologia e, dall’altro, quello di patologia rende possibile la costituzione di limiti necessari perché possa instaurarsi la normalità.
La malattia è il segno clamoroso della precarietà dell’equilibrio offerto: chi non si adatta alle norme esprime la sua difficoltà attraverso la crisi. L’aggettivo vulnerabilità, dal latino vulnus, richiama la ‘ferita’; tutti gli esseri umani sono esposti al rischio continuo di essere ‘feriti’ nella loro integrità fisica e mentale: ammalarsi, sviluppare disabilità o essere esposti a determinati effetti di rischi ambientali. Quando ciò accade si avverte il paradosso, vale a dire la necessità di conciliare ed integrare nel proprio vissuto l’aspetto del limite con la capacità di accogliere e di valorizzare la presenza nel frammento di qualcosa che rimanda al tutto.
Ė importante ricordare però che le disamine diagnostiche, psichiatriche e neurologiche quasi mai riescono a penetrare nel vissuto, apparentemente disancorato dal mondo, di una persona. La vulnerabilità, inesorabile specchio della verità, ci ricorda la fragilità del nostro essere corporeo. Bisogna avere l’umiltà di riconoscere non solo i propri limiti ma anche la prudenza di non lasciarsi prendere dal desiderio smanioso di voler spiegare ogni cosa senza comprendere. Il vissuto, le emozioni ed i sentimenti appartengono a quella semplicità intima e propria di ognuno che difficilmente può essere resa con un’analisi quantitativa o attraverso saperi strutturati mediante tecniche diagnostiche, riabilitative o terapeutiche.
Come rendere possibile l’accettazione e la considerazione delle capacità e delle fragilità delle persone disabili nella nostra società fortemente competitiva e individualistica che tende sempre più alla performance? Ed ancora cosa accade quando un fratello o una sorella presenta una disabilità sapendo che l’identità, le relazioni sociali, la vita affettiva degli adulti portano iscritti nella carne stessa dell’essere l’impronta della storia dei legami fraterni? La vulnerabilità, cioè la possibilità di essere feriti, rappresenta un aspetto primario nell’ambito bioetico, soprattutto nel momento in cui si sottolinea la necessità di una maggiore attenzione verso le persone più indifese, qualunque sia la loro fragilità, sia essa fisica, psicologica, sociale, biologica o culturale.
Se non si nutre la speranza che nel labirinto della vita interiore dell’altro ci sia la possibilità di inoltrarsi in paesaggi di libertà ancora percorribili ed aperti, capaci di descrivere cartografie di significati, si corre il rischio di inaridirsi, di limitare il proprio orizzonte conoscitivo, chiudendosi ad ogni autentica forma del prendersi cura. In tal modo, forse, sarà possibile fare della terra lo specchio del cielo, dando ad esso quasi una visione corporea, afferrabile, senza la quale lo stesso cielo rischia, oltre le nuvole, di farsi vuoto e grigio: in questo esprit de finesse il limite sembra declinarsi nelle diverse accezioni con l’infinito e la mancanza con la pienezza! Solo così sarà possibile prendersi la responsabilità di lasciarsi andare…. trasformando l’accoglienza in dono…
D. Prof. Raymond ZAMMIT, nella sua relazione “La bioetica e la disabilità: quale futuro insieme?” ha messo in evidenza come la bioetica ha mostrato sin dagli inizi una visione prevalentemente incentrata attorno alla malattia, alla menomazione fisica o psicologica delle persone con disabilità e non al loro vissuto quotidiano, come sintetizzano le parole di Sara Goering da lei citate: «non è stata capace di comprendere la menomazione e la limitazione, persino la disabilità come una parte regolare della vita umana».
Ha parlato che la bioetica oggi soffre di un certa visione troppo ristretta legata ai limiti della vita. Quali sfide dunque, anche per un dialogo di condivisione fra i due campi, bioetica e disabilità?
R. L’affermazione di Sara Goering riassume il disagio dei movimenti sociali dei diritti per le persone disabili nei confronti della bioetica che vede la disabilità come un difetto o un deficit da prevenire o correggere. La bioetica e la società contemporanea quindi non vedono persone disabili, ma li vedono come disabili. Si arriva allora al paternalismo medico che riduce le persone con disabilità a pazienti, destinatari passivi della benevolenza medica. Questa riduzione biologica non riconosce tutti i fattori importanti per il benessere umano e distrugge l’indipendenza delle persone disabili.
La disabilità, tuttavia, non deve essere confusa con la menomazione, poiché è causata da restrizioni sociali e si rende necessario esplorare il modo in cui la società, la cultura e la politica costituiscono la disabilità. Piuttosto che concentrarsi solo sulle soluzioni terapeutiche mediche inerenti le disfunzioni somatiche, è necessario concentrarsi sulla giustizia sociale.
Si avverte quindi la necessità di un dialogo fra la bioetica e la disabilità, in cui la disabilità deve diventare elemento centrale nella riflessione bioetica. Ė così che la bioetica può andare oltre un’etica medica e diventare una bioetica integrale, cioè un’etica della vita incarnata e vissuta. Questo necessita di una riformulazione del concetto di autonomia dal punto di vista delle persone con disabilità, considerando le persone “normali” soltanto come temporaneamente abili.
La bioetica deve cominciare a vedere la disabilità come un elemento ineluttabile della vita umana perché le persone non sono volontà pienamente razionali, indipendenti e autonome, che affermano la propria sovranità sul corpo ma, come sottolinea Alisdair MacIntyre, siamo tutti “animali razionali dipendenti”. In questo contesto, assume molta importanza la narrazione, e ascoltare le storie di persone con disabilità aiuta tutti a poter re-immaginare la propria vita e comprendere che anche le persone con disabilità possono avere una buona vita. Occorre quindi più lavoro sulle questioni bioetiche da parte dei disabili perché, come afferma lo slogan del movimento dei diritti per la disabilità: “nothing about us, without us” (“Nulla per noi, senza di noi”).
D. Professori ZAMMIT e GRASSI, dall’esperienza vissuta al convegno quali temi vorreste approfondire o da cui partire per un altro evento da condividere? Avreste già in progetto un terzo convegno di bioetica? Se sì ci potreste darne qualche anticipazione? Riguardo al convegno da poco concluso, vorrei fare una considerazione: data l’elevata competenza professionale dei relatori e l’approfondimento pluridisciplinare dell’argomento perché non offrite la possibilità di usufruire dei crediti formativi per le professioni sanitarie?
R. Si vuole continuare a mantenere vivo il dialogo con gli scenari di cultura e di scienza, di arte e di pensiero, attraverso la periodica organizzazione di convegni di bioetica multidisciplinari. Sia i paradigmi di interpretazione neuroscientifici, che credono di spiegare tutto attraverso i meccanismi neuronali, che quelli psichiatrici e psicologici sono modelli spesso deterministici, e questo sovente rende difficile che si possano integrare tra loro: ogni riferimento possiede un linguaggio proprio non sempre compatibile con il linguaggio dell’altro modello.
Si cercherà di focalizzare, nel prossimo Convegno l’attenzione sul tema: Dall’anima al corpo – dall’arte alla scienza: quali declinazioni?. in modo da poter coinvolgere i diversi linguaggi e di operare per costruire una integrazione tra le diverse visioni del mondo che sappia superare le aporie.
Stiamo certamente valutando la possibilità di poter rendere fruibile alle professioni sanitarie l’acquisizione di crediti formativi e/o crediti universitari spendibili per corsi universitari. Soprattutto quest’ultimo aspetto, può essere reso possibile dall’Università, soltanto se vi è un numero minimo ―fissato dall’Università di Malta ― di persone che possono essere interessate.
© Bioetica News Torino, Luglio 2022 - Riproduzione Vietata