Introduzione
di Enrico LARGHERO
Medico, bioeticista
responsabile del Master universitario in Bioetica, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – sezione parallela di Torino
Luci ed ombre accompagnano da sempre la nostra esistenza. Tuttavia, infanzia, adolescenza, maturità e senescenza costituiscono dei riti di passaggio durante i quali le conflittualità emergono, in forma diversa e in modo più cogente. Tra queste l’adolescenza occupa un posto particolare, essendo una fase nella quale i conflitti si fanno più aspri. Pensare a tale periodo evoca in tutti noi un po’ di nostalgia, ma guardando i giovani che ci circondano, ci rendiamo conto di quanto la loro esistenza, pur fra molti entusiasmi, appare tormentata. Avere tutto come possibilità, cantava Francesco Guccini, significa quanta importanza abbiano questi anni permeati di sogni, di aspettative, ma anche di grandi scelte che condizioneranno il loro futuro. Gli adolescenti (oggi, dicono le statistiche, più soli e fragili di un tempo) della società liquida rischiano di annegare e hanno bisogno, ora più che mai, di un mondo di adulti che li prenda per mano, che insegni loro a nuotare affinché possano trovare se stessi e costruire i loro progetti di felicità.
Un fiore sbiadito, lasciato cadere da una mano altrettanto smorta, torna alla vita facendo capolino in un bouquet dai mille colori. In queste due immagini, tratteggiate da un piccolo paziente, è racchiusa la storia di alcuni di loro, i più “fortunati” tra i circa 80 mila giovani italiani tra i 12 e i 25 anni che manifestano forme depressive o ansiose patologiche. Solo una piccola percentuale, infatti, riesce a ricevere aiuto adeguato e tempestivo.
L’adolescenza come la «più delicata delle transizioni. Ricerca di identità nella società liquida» è stata al centro della serata inaugurale dei Martedì della bioetica lo scorso 24 settembre. Relatrice dell’incontro, organizzato dall’Associazione medici cattolici (Amci) in collaborazione con «Bioetica&Persona», la professoressa Maria Pia Massaglia, già direttrice della Scuola di specializzazione in Neuropsichiatria infantile e Psicoterapia dell’età evolutiva all’Università di Torino.
Premesso che la stragrande maggioranza dei nostri ragazzi conduce un’esistenza normale, con le problematiche che da sempre caratterizzano il periodo delicato del passaggio dall’infanzia all’adolescenza, la professoressa Massaglia ha denunciato la crescita preoccupante del numero di giovani che manifestano vere e proprie patologie psichiatriche e comportamenti asociali. Tra il 2014 e il 2019 i disturbi neuropsichiatrici di bambini e adolescenti sono aumentati del 45 per cento, sicché – secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della Sanità – «il suicidio rappresenta ormai da oltre dieci anni la seconda causa di morte tra gli adolescenti dopo gli incidenti stradali, occupando la posizione a lungo tenuta dai tumori». Le cronache cittadine e nazionali purtroppo ne danno triste conferma: solo al Regina Margherita di Torino, tra gennaio e agosto 2019, ci sono stati 28 ricoveri per tentato suicidio, più di 3 al mese.
Tra le situazioni più a rischio c’è quella dei cosiddetti «neet», acronimo inglese per «(Young people) Neither in Employment nor in Education or Training» cioè giovani non impegnati nello studio, né nel lavoro né nella formazione; secondo l’Istat si tratta di un italiano su quattro nella fascia d’età 15-34 anni. Molti di loro si rifugiano tra le mura domestiche. I livelli più gravi di isolamento e confinamento vengono oggi indicati con il termine giapponese «hikikomori». Si tratta di scelte estreme causate in qualche caso da patologie mentali (hikikomori “primari”) o sociali di varia natura (h. “secondari”, tra cui molte vittime di bullismo). Il fenomeno, già presente in Giappone dalla seconda metà degli anni Ottanta, ha incominciato a diffondersi negli anni Duemila anche negli Stati Uniti e in Europa. Si stima che oggi in Italia gli hikikomori siano 100.000, di cui 14.000 solo in Piemonte (al secondo posto dopo la Lombardia).
A cosa si deve questo crescente disagio? Psicologi e sociologi, ma anche insegnanti ed educatori concordano nell’affermare che i genitori di oggi spesso rifiutano il proprio ruolo e fanno gli “amiconi”; questo sfocia in buonismo educativo e iperprotezione; i figli diventano piccole divinità attorno a cui ruota tutta la famiglia; non si sentono mai dire dei no; la conseguenza è il declino della responsabilità. Alla base del “lassismo” dei genitori, secondo molti psicanalisti, vi sarebbe il bisogno di sentirsi approvati e amati dai figli, unito all’ansia da prestazione riversata sui figli e, dunque, all’intolleranza per i loro fallimenti eventuali. Altrettanto colpevole è la moderna illusione genitoriale di poter dare la felicità ai propri ragazzi.
A tutto ciò, secondo la professoressa Massaglia, occorre aggiungere la disgregazione della famiglia tradizionale, che comporta «labilità dei legami, relazioni intermittenti, turnover di figure sostitutive, precoce istituzionalizzazione ad esempio negli asili nido». La relazione genitori-figli ne esce stravolta: il figlio non è più un soggetto ma un oggetto, la famiglia non è più “edipica” ma affettiva, i ruoli si confondono in una sostanziale assenza di attenzione emotiva, con frequente delega educativa alla scuola o ad altre figure esterne. «Ne deriva una grande fragilità narcisistica dei ragazzi, che si rinforza ulteriormente nell’ambito della realtà virtuale, spesso prevalente se non esclusiva».
L’adolescenza, ha spiegato la neuropsichiatra, «è un momento di cambiamento radicale perché si mettono in discussione i vecchi riferimenti dell’infanzia per trovarne di nuovi. È necessario comprendere chi si è e cosa si vuole diventare, perciò è importante fare i conti con le proprie “nuove dotazioni”: corporee (dimensioni e funzioni adulte), mentali (ragionamenti e pensieri più articolati), relazionali (soprattutto extra-famigliari, con coetanei e adulti alternativi ai genitori) e sociali (attività svolte in autonomia)». La criticità si configura quando questo processo adolescenziale risulta ostacolato, ad esempio dal progressivo isolamento sociale.
Altri campanelli di allarme sono le imprese devianti o di protesta, l’iperattività, gli “incidenti” ripetuti e solo apparentemente casuali, le condotte autolesive, i disturbi del comportamento alimentare come anoressia e bulimia, le somatizzazioni come le cefalee e gli attacchi di panico. «È molto difficile per un adulto entrare in contatto con il dolore di un adolescente superando la crosta della sfacciataggine, del vocabolario inadeguato e volgare, persino del cinismo», ha ammesso la neuropsichiatra. «Spesso viene esibito il corpo, ma non viene aperto alcuno spiraglio sull’anima, segregata nell’abisso di una sofferenza inespressa e circondata dalla solitudine». La maggior parte degli operatori concorda sul fatto che per aiutare gli adolescenti in difficoltà sono necessari interventi su due fronti: sulla realtà interna, con psicoterapia e/o trattamento psicofarmacologico, e su quella esterna, con interventi sulla famiglia e azioni scolastico-educative.
Il processo di cura è spesso risolutivo (solo nel 5 per cento dei casi la patologia persiste in età adulta), ma ad oggi solo una minima parte dei ragazzi italiani con questi problemi viene curata; l’attesa per il ricovero in struttura di adolescenti in «acuzie psichiatrica» oscilla tra i 2 e i 6 mesi. Inoltre l’80 per cento delle 700 comunità terapeutiche attrezzate per assistere gli adolescenti è concentrata in Piemonte e Lombardia; tra le eccellenze c’è il progetto «Percival» dell’Agenzia di tutela della salute di Milano, pensato per prevenire rischio suicidario negli adolescenti, ma riesce a seguire solo 30 ragazzi all’anno a fronte di 14.000 casi solo nel 2016. Abbiamo dunque ancora molta strada da fare per impedire che la maggioranza di questi fiori avvizzisca irrimediabilmente fuori dal vaso.
Note
Il testo appare nella «Voce e il Tempo» del 10 novembre 2019, p. 27, Bambini e adolescenti, i disturbi psichiatrici aumentano di L. Reale. Si ringrazia per la pubblicazione il direttore Alberto Riccadonna
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