Accompagnare la morte
28 Ottobre 2017Nei giorni dedicati alla memoria dei defunti don Paolo Tomatis riflette sui «segni» con cui la Chiesa e la società civile accompagnano la morte. Al suffragio collettivo nei cimiteri oggi si affiancano linguaggi che chiudono la memoria nella dimensione privata.
Intervento di Don Paolo Tomatis*
Nelle diverse modalità, oggi, di commemorare i defunti, il ruolo centrale della Chiesa nella custodia di un “deposito di sapienza”
Il giorno della commemorazione dei defunti è per tanti cattolici l’occasione per una memoria più intensa dei propri cari che hanno terminato la loro esistenza terrena. I nostri defunti sono sempre con noi, e ciascuno di noi, secondo la propria storia e il proprio carattere, li ricorda a modo suo. Chi va spesso al cimitero, chi fatica ad andarci; chi “fa dire delle messe”, come si dice per abitudine a proposito della Messa di suffragio e di comunione con i defunti, e chi invece li ricorda nel proprio cuore, senza avvertire l’esigenza o il valore di pregare per i propri cari nel cuore dell’Eucarestia; chi elimina le tracce della loro presenza per riuscire a continuare a vivere, chi invece riempie la casa della loro memoria, sino al limite di trattenere l’urna delle ceneri in casa propria.
Nella società della prestazione
Nel passaggio dalla società cristiana della disciplina alla società postmoderna della prestazione, ci troviamo a fare i conti con nuovi modi di accompagnare alla morte, di dare l’addio ai propri cari, di vivere il lutto. Tali modalità sono affidate alla scelta dei singoli, i quali non di rado ritengono che, di fronte alla morte di un proprio caro, nessuno, neppure la Chiesa, possa impedire di fare ciò che si vuole, ciò che si ritiene più giusto, rispetto alle ultime presunte volontà del defunto o ai desideri dei parenti prossimi. Le esemplificazioni di tali esigenze e desideri sono presto fatte: ricordi personali e interventi durante i funerali, canzoni da far ascoltare e oggetti da porre sopra la bara, dispersioni in natura o custodia delle ceneri nelle case, richieste di benedizioni senza funerali, alla camera mortuaria dell’ospedale o nei nuovi centri funerari, e così via.
Un deposito di sapienza
In questione non è tanto la perdita del monopolio della gestione della morte e del lutto, con conseguente fatica a gestire le richieste in un modo che sia insieme rispettoso dell’umanità di chi si avvicina e del contesto di fede di chi accoglie. In questione, a ben vedere, è la capacità e la possibilità per la Chiesa di custodire e proporre un “deposito” di sapienza nel vivere la morte, che si traduce in un sistema simbolico fatto di parole di senso, gesti di prossimità, riti di speranza, che siano autenticamente cristiani e insieme profondamente umani. Sostiamo su qualche esempio di tale “deposito”.
Un accompagnamento fatto di soglie
Da sempre, accompagnare i defunti dalla vita alla morte (e nella fede cristiana, dalla morte alla vita) non è una cosa che può avvenire tutto di un colpo, occultando il cadavere il prima possibile per ritornare alla vita normale. Tra le nazioni d’Europa, siamo tra quelle più veloci nel passare dalla morte alla sepoltura, complice il caldo del clima mediterraneo. Ciò impedisce di darsi il tempo necessario per rimanere ancora vicini ai propri cari, per ritrovarsi insieme ai parenti, per interrompere la vita quotidiana, per accompagnare nella preghiera il momento del distacco. Con questa coscienza, il nuovo Rituale delle esequie non ha cambiato di una virgola lo schema a tappe dell’accompagnamento funebre, fatto di luoghi simbolici (la casa, la chiesa, il cimitero) e di tempi propri (la condivisione, la veglia, l’affidamento, la separazione). Il Rito ci ricorda una doppia esigenza umana e cristiana: di trattenerci con il corpo del defunto, perché ci stiamo separando; di separarci da esso, perché si apra un nuovo livello di comunione. Da qui l’importanza per una comunità di accompagnare, nei modi anche più semplici, le diverse tappe che portano dalla morte al cimitero, sino ai giorni che seguono. Non è necessario che il ministro ordinato sia sempre presente: anche all’interno della famiglia stessa può sorgere chi è capace di pregare e far pregare, ad esempio al momento della tumulazione o nel luogo della cremazione, a patto che vi sia qualcuno capace di accogliere e accompagnare le famiglie. Le equipe dei funerali costituiscono una delle proposte più concrete, insieme alle iniziative per l’accompagnamento nel lutto, per raggiungere tali obiettivi.
Mediare tra prossimità e distanza
L’invito della Chiesa a elaborare il lutto, mediando tra la separazione progressiva e il contatto ancora necessario, si traduce nella saggezza plurisecolare di chi dice “no” alla prassi della dispersione delle ceneri in natura e alla prassi di segno opposto di custodire le ceneri nelle proprie case. Nel primo caso l’effetto è quello di far sparire troppo in fretta il corpo, eliminando dal punto di vista antropologico la possibilità di mantenere un contatto con il corpo, e dal punto di vista teologico la possibilità di custodire la continuità simbolica tra il corpo fisico e il corpo destinato a risorgere, per cui sarà “questo” corpo a risorgere, seppure in modalità radicalmente nuove. Nel secondo caso, l’effetto è quello opposto di rimanere ingabbiati nella morte, accanto alla pietra del sepolcro, che viene a coincidere con la propria casa, senza aprirsi alla speranza della risurrezione, che parla di un sepolcro vuoto da abbandonare.
Nazioni come la Francia, che hanno sperimentato da più anni questa possibilità, stanno facendo marcia indietro, a motivo dei problemi che si creano non solo a livello psicologico, ma pure a livello pratico (urne dimenticate nelle cantine, parenti e amici che reclamano di non poter accedere al corpo del defunto). Le motivazioni per cui le persone scelgono l’una o l’altra pratica possono essere diverse, e vanno ascoltate, rispettate e accompagnate, sempre. E tuttavia c’è una saggezza profonda nella Chiesa che invita la persona più sola a non sparire nel vento con la scusa che “tanto nessuno mi verrà a trovare” e “così non do disturbo a nessuno”, e la persona più legata da una relazione di amore a non trattenersi in modo eccessivo con la persona amata, per convergere nella casa comune del cimitero.
Cimiteri umani e cristiani
La laicizzazione napoleonica dei cimiteri non è da considerarsi come una sconfitta da parte dei cristiani, nella misura in cui ci educa ad una attesa ecumenica della Risurrezione finale, senza divisioni, nel rispetto delle reciproche differenze. Per questo motivo, nonostante la più recente legislazione preveda la possibilità di custodire le urne nelle chiese, la Chiesa di Torino rimane ferma nella scelta saggia di valorizzare la casa comune, riconoscendo nella scelta del cimitero un modo di valorizzare la socialità della morte e la stabilità della memoria sociale, contro la deriva individualista (per cui decide solo il singolo ciò che fare del suo corpo) o intimista (per cui solo la famiglia o il singolo è proprietario dei suoi morti). Nel modo di vivere la morte, si esprime il senso della vita: nessuno è proprietario unico di nessun altro, neppure noi di noi stessi, poiché tutti apparteniamo a Dio e ai nostri fratelli.
Un ricordo cristiano
Nella tensione tra la prossimità e la giusta distanza, può essere infine considerata la questione delle frequenti richieste di poter ricordare i propri defunti durante i funerali, intervenendo con ricordi, pensieri, preghiere e riflessioni. L’esigenza in molti casi è comprensibile e umanissima, nel desiderio di esprimere una parola di affetto e di riconoscimento. Allo stesso tempo, il timore di veder vanificato in un attimo tutto l’impegno della celebrazione di annunciare la Vita nell’ora della morte chiede di vigilare su interventi inappropriati per stile e contenuti. La casistica di tali interventi è variopinta in taluni casi imbarazzante, per superficialità, narcisismo di chi ci tiene ad apparire, messaggi contrari alla fede e alla carità. La soluzione proposta dalla nostra Chiesa è la seguente: eventuali testi scritti, sottoposti in precedenza all’attenzione della comunità cristiana, possono essere letti o all’inizio, o alla fine della celebrazione, a commiato avvenuto. Dunque, niente interventi liberi e improvvisati. È una scelta discussa, anche all’interno dello stesso presbiterio. È una scelta che, se conosciuta in anticipo e concordata con i familiari, può evitare spiacevoli “no” dell’ultimo momento. L’obiettivo, è bene ripeterlo, non è quello di reprimere la libertà, ma di orientarla, in modo che ciò che si fa e che si dice non sia fuori luogo.
* tratto da Accompagnare la morte. Memoria e congedo dai defunti , «La Voce e il Tempo», domenica 29 ottobre 2017, pp. 1; 12-13