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18 Marzo Aprile 2014
Speciale Aborto Post-nascita: Considerazioni in merito all'articolo di Giubilini & MINERVA, 2012 "After birth abortion: Why should the baby live?"

II. Le ascendenze filosofiche

Abstract

È di chiara matrice utilitarista l’orizzonte di pensiero entro cui A. Giubilini e F. Minerva argomentano la liceità morale dell’aborto post-natale nel caso in cui, dopo la nascita, si verificassero le stesse circostanze che giustificano l’aborto prima della nascita: a legittimare tale pratica, infatti, è il noto principio di utilità, che impone di massimizzare la felicità generale. Più che l’argomentazione addotta – che, in ottica utilitarista, presenta una sua coerenza interna – a verifica critica sono da sottoporre i fondamenti del pensiero etico dei due Autori, di cui la tesi dell’aborto post-natale si nutre. Meno coerente con l’impianto utilitarista riesce invece l’asserita preferibilità dell’aborto post-natale all’adozione nel caso di donne che subirebbero un danno nel dare in adozione il proprio figlio. 


 Le ascendenze filosofiche

Paolo Merlo7

 

Desta una certa sorpresa la risonanza avuta dall’articolo pubblicato da Alberto Giubilini e Francesca Minerva nel «Journal of Medical Ethics»8: non è la prima volta, infatti, che in ambito bioetico si manifesta l’intento di giustificare la legittimità morale dell’infanticidio in forza dell’analogia con l’aborto, sulla scia di Michael Tooley9 e di Peter Singer10. Ad ogni modo, il contributo di Giubilini e Minerva presenta un paio di tratti peculiari rispetto agli anteriori tentativi di legittimazione etica dell’infanticidio, il più rilevante dei quali è di tipo linguistico: la soppressione del neonato non viene designata con il tradizionale e generico termine «infanticidio», né con quello più mirato di «eutanasia infantile», bensì con quello di «aborto post-natale», e questo per «enfatizzare che lo stato morale dell’individuo ucciso è paragonabile a quello di un feto (su cui l’aborto nel senso tradizionale del termine viene normalmente effettuato) più che a quello di un bambino». L’innovazione linguistica, per quanto forzata (un «ossimoro», come riconoscono gli stessi Autori), porta al cuore della tesi che Giubilini e Minerva intendono sostenere: la liceità del ricorso all’aborto post-natale «quando dopo la nascita si verificano le stesse circostanze che giustificano l’aborto prima della nascita». L’altro tratto peculiare – meno eclatante, ma significativo – riguarda la preferibilità dell’aborto post-natale all’adozione: Giubilini e Minerva sono dell’avviso che l’adozione non sia una valida alternativa all’aborto post-natale nel caso di «donne che subirebbero un danno nel dare in adozione il proprio figlio».

Questo tentativo di legittimazione dell’«aborto dopo la nascita» alligna su un orizzonte di pensiero etico facilmente individuabile: quello utilitarista. Le prime formulazioni teoriche di questa forma di pensiero, oggi assai influente, risalgono agli scritti di Jeremy Bentham (1748-1832) e di John Stuart Mill (1806-1873); nel corso della seconda metà del Novecento l’utilitarismo è divenuto oggetto di rinnovato interesse, sviluppando al suo interno numerose correnti, al punto che si sarebbe tentati di dire che «ogni utilitarista contemporaneo è una “specie a sé”»11.  Il nucleo centrale delle diverse varianti dell’utilitarismo è costituito dal cosiddetto «principio di utilità», secondo il quale occorre agire in modo da massimizzare l’utilità (o felicità, o benessere) degli individui coinvolti. Bisogna inoltre segnalare che, nella prospettiva utilitarista, un’azione non può essere giudicata giusta o sbagliata a priori, bensì in ragione delle sue conseguenze – positive o negative – in vista della felicità generale: tra due o più azioni alternative, va scelta quella che incrementerà maggiormente la quantità complessiva di utilità posseduta dagli individui interessati dalle conseguenze dell’azione. Occorre comunque tener presente che in seno all’utilitarismo contemporaneo si danno differenti definizioni di «utile» e discordi indicazioni per l’applicazione del «principio di utilità».

L’impianto utilitarista affiora a più riprese nel contributo di Giubilini e Minerva, e trova una delle sue più lineari espressioni in un passaggio preliminare alla loro proposta sull’aborto pre-natale. Prendendo le mosse dalla pratica dell’«eutanasia infantile», «proposta dai filosofi per i bambini con gravi anomalie e la cui vita potrebbe essere non degna di essere vissuta e che sperimenteranno sofferenze insopportabili», gli Autori riconoscono che «è difficile trovare argomentazioni inequivocabili che dimostrino che la vita con certe patologie non è degna di essere vissuta», e questo «nonostante sia ragionevole prevedere che vivere in condizioni gravi sia contro il miglior interesse del bambino nato». La ragione della difficoltà indicata si evince dal fatto che «si riscontra che bambini con la sindrome di Down, allo stesso modo di quelli affetti da altre malattie gravi, sono felici». È proprio a questo punto che emerge la preoccupazione di Giubilini e Minerva di massimizzare la felicità generale, senza dare congrua rilevanza a quella del bambino coinvolto: infatti, pur riconoscendo che anche i bambini affetti da malattie gravi possono essere felici, si afferma che «crescere questi bambini potrebbe essere una sofferenza insopportabile per la famiglia e per la società intera, qualora lo Stato provveda alle loro cure». Proprio per questo i due Autori concludono che «da questo punto di vista, il fatto che un feto sia potenzialmente una persona che avrà una (per lo meno) accettabile vita non è una ragione per proibire l’aborto».
Siffatta conclusione viene poi estesa all’aborto post-natale, per cui – come chiedono gli Autori – dovrebbe essere «eticamente accettabile» in tutti i casi in cui lo è l’aborto e, in particolare, nei casi «in cui i neonati siano potenzialmente in grado di vivere (per lo meno) una vita accettabile, ma il benessere della famiglia sia a repentaglio».

Conclusioni siffatte risultano del tutto coerenti con il pensiero utilitarista, che intende l’utilità generale come somma algebrica dell’utilità dei singoli individui, di fatto intesi come meri «contenitori di utilità». Come altri hanno osservato, nel computo della felicità generale i singoli esseri umani altro non sono che «localizzazioni delle loro rispettive utilità, luoghi in cui risiedono attività del tipo desiderare, e provare piacere e dolore. […] In questo schema le persone non contano come individui più dei singoli serbatoi di petrolio nell’analisi del consumo nazionale di petrolio»12. Con ciò, la felicità e la vita stessa di un singolo individuo cedono il passo all’esigenza di massimizzare l’utilità generale, cosicché – come sostengono Giubilini e Minerva – la soppressione di un essere umano nel seno materno potrebbe essere avallata non solo per evitare alla famiglia una grave sofferenza, ma anche per sottrarre lo Stato all’onere di dover provvedere alle sue cure. Insomma, nel caso in cui la nascita di un individuo comportasse un decremento della felicità generale, gli utilitaristi ritengono moralmente giustificato impedire tale nascita, ricorrendo all’aborto. Coerenti con questa impostazione riescono talune affermazioni di Giubilini e Minerva sulla «ragionevolezza» dell’aborto non solo nel caso di gravi malattie dei nascituri, ma anche in quello di feti sani: «Il benessere delle persone effettive potrebbe essere minacciato dai nuovi bambini (anche se sani) che richiedono energie, soldi e cure che potrebbero mancare ad una famiglia»; «il criterio come quello dei costi (sociale, psicologico, economico) per i genitori potenziali è una ragione sufficiente per abortire anche quando il feto è sano».

I reiterati riferimenti di Giubilini e Minerva all’«interesse» (interest) o al «miglior interesse» (best interest) del bambino o delle persone lasciano intravedere una certa consonanza con quel filone di pensiero utilitarista che fa derivare la massimizzazione della felicità dalla «soddisfazione degli interessi»13; questi interessi vengono però riferiti non ai semplici desideri degli esseri senzienti (ai quali spetterebbe «il diritto di non essere lesi»), bensì alla capacità di attribuire alla propria esistenza almeno alcuni valori di base (capacità attribuita a chi è un «soggetto con un diritto morale alla vita»). Con ciò, Giubilini e Minerva paiono distaccarsi dall’utilitarismo edonista più fedele alla matrice benthamiana, per aderire a una forma di utilitarismo in cui l’utile è inteso come soddisfazione degli interessi dell’individuo, indipendentemente dalla sensazione di piacevolezza prodotta. Ad ogni modo, anche in questa variante del pensiero utilitarista si ritiene di poter legittimare la possibilità di sopprimere un essere umano prima della nascita (o anche subito dopo), poiché questi è ancora incapace di dare valore alla propria vita, di essere cosciente di essa, nonché di esprimere desideri e di fare progetti per il futuro.

Su questa base si comprende perché Giubilini e Minerva sostengano che «sbagliare nel portare una nuova persona all’esistenza non può essere paragonato con l’errore di procurare la morte a una persona in vita. La ragione è che, diversamente dall’omicidio di un essere vivente, non farlo nascere non preclude a nessuno di perseguire i propri obiettivi futuri». La citazione è interessante non solo perché lascia intravedere a quale tipo di utilitarismo s’ispirino i due Autori, ma anche per l’utilizzo del verbo «sbagliare» (failing) e del termine «errore» (wrong), che rinvia a un altro tratto di questa forma di pensiero etico. L’utilitarismo, infatti, badando alla massimizzazione dell’utilità e agli effetti prodotti dall’azione, perde di vista la dimensione intenzionale dell’agire, ovvero la sua relazione con la bontà o meno del volere che lo informa: per questo l’utilitarismo si configura come una forma di «intellettualismo etico», per il quale alla radice di un’azione ingiusta non si situa una volontà negativamente intenzionata, bensì una valutazione «sbagliata». In breve, non è alle «colpe» morali che bada questa matrice di pensiero, ma a eventuali «errori» compiuti nel calcolo di massimizzazione dell’utilità.

A ben vedere, il raccordo di Giubilini e Minerva con l’utilitarismo si palesa fin dall’affermazione con cui avviano il loro contributo: scrivono, infatti, che «anomalie gravi dei feti e rischi per la salute fisica e psicologica della donna sono spesso citati come ragioni valide per giustificare l’aborto». Non è, quindi, il bene di un nuovo essere umano a venire preso in considerazione, ma solo dei fattori che potrebbero essere fonte d’infelicità, come gravi anomalie del feto, oppure gli eventuali rischi per la salute fisica e psicologica della donna. La fondatezza di tali ragioni pare agli Autori talmente evidente da non richiedere alcuna ricognizione critica sull’effettiva liceità dell’aborto: è questo, per Giubilini e Minerva, un dato condiviso quanto basta per assumerlo come punto di partenza della loro successiva argomentazione sull’aborto post-natale. Si tratta di un modo di procedere consono a quella consolidata strategia utilitarista che mira a riformare la morale esistente attraverso una migliore massimizzazione dell’utilità (una massimizzazione conseguibile – nel caso in questione – con la pratica dell’aborto post-natale al verificarsi delle stesse circostanze che giustificano l’aborto prima della nascita); nondimeno, è da lamentare che il punto di partenza di questo percorso non sia oggetto di un’adeguata ricognizione fondativa, visto che è in gioco la vita di fragili e irripetibili esseri umani. Del resto, lo stesso Maurizio Mori riconosce che, nelle discussioni di bioetica, il tema dell’aborto «ancora oggi costituisce uno dei temi più controversi»14; per questo una breve introduzione critica sulla tesi della legittimità dell’aborto sarebbe riuscita quanto mai opportuna.

L’assenza di un congruo richiamo alle ragioni che legittimerebbero l’aborto procurato rende impraticabile, com’è ovvio, una recensione critica di tali ragioni. Ad ogni modo, siamo dell’avviso che – più che alle singole ragioni addotte – si dovrebbe anzitutto badare all’orizzonte interpretativo da cui promanano e nel quale possono trovare adeguata intelligibilità. Diciamo questo da estimatori del metodo di Bernard Lonergan15, che ci ha condotto a prestare adeguata attenzione alle posizioni fondamentali che sono all’origine dei differenti orizzonti entro cui si dipanano le varie proposte bioetiche, formulando talora valutazioni tra loro irriducibili. In particolare, occorre tener presente che l’etica utilitarista (a) alligna su di una gnoseologia di matrice empirista, che si riverbera (b) nell’individuazione della forma del bene in qualcosa di sensibilmente percepibile e quantificabile (l’utile, la felicità, il benessere), (c) senza alcun riferimento fondativo all’Assoluto. Ne deriva una concezione riduttiva dell’uomo, che ne misconosce l’eccedenza qualitativa rispetto agli altri viventi, come pure una comprensione dell’esperienza morale in relazione dialettica non solo col personalismo ontologicamente fondato, ma anche con un pensiero bioetico sensibile all’eredità kantiana16. Chi riflette all’interno di un orizzonte empirista, si autopreclude in partenza la possibilità di accedere alle questioni di senso e all’universo dei valori morali (emblematici, in merito, riescono l’ateismo e il riduzionismo edonista di Bentham), pregiudicando negativamente lo sviluppo di una fondata teoria etica (Bentham stesso riconobbe l’impossibilità di fondare razionalmente il principio di utilità).

Ritornando al contributo di Giubilini e Minerva, vi si può notare la traccia di un fenomeno presente anche in altri autori di matrice utilitarista (ma non solo): quello di un uso maldestro di categorie filosofiche sorte in ben altri orizzonti conoscitivi. Ci riferiamo, in particolare, al concetto di «persona», riferito tout-court  a un «soggetto con un diritto morale alla vita» e a «un individuo che è capace di attribuire alla propria esistenza almeno alcuni valori di base come il ritenere una perdita l’essere privati della propria esistenza», prescindendo totalmente dalla lunga storia di tale categoria e dai suoi addentellati ontologici (al punto che gli Autori devono ammettere – non senza una certa ingenuità – che «è difficile determinare esattamente quando un soggetto inizia o smette di essere una ‘persona’»). Ma ci riferiamo pure alle formule «persona attuale» e «persona potenziale» (quest’ultima utilizzata più volte in riferimento a feti e neonati): fa specie vedere come delle categorie metafisiche («atto» e «potenza») – sorte per spiegare non il succedersi, ma il divenire degli enti – vengano utilizzate per designare il darsi o meno dell’ente-persona (con una sovrapposizione semantica tra quanto si pone solo nell’ambito del «possibile» e quanto, invece, già «esiste» realmente, sviluppandosi attraverso attuazioni successive).

L’impossibilità di saggiare le argomentazioni a supporto dell’aborto procurato non ci esime dal dare uno sguardo alla coerenza con cui da questo assunto viene derivata la legittimità dell’aborto post-natale. Indubbiamente, l’argomentazione condotta da Giubilini e Minerva ha una sua coerenza interna, che va riconosciuta: nella loro prospettiva, «lo status morale di un neonato è equivalente a quello di un feto», per cui è del tutto conseguente disporre del neonato così come si dispone del feto. In certo modo, i due Autori rovesciano l’argomentazione imperniata sull’equivalenza tra neonato e feto – un’equivalenza ontologica, prima ancora che morale – da altri talora adottata per denunciare l’immoralità della soppressione del feto: l’aborto post-natale sarebbe legittimabile perché – così sostengono i due Autori – feto e neonato hanno il medesimo «status morale», «nel senso che entrambi mancano di quei propositi che giustificano l’attribuzione del diritto alla vita di un individuo».

In verità, si potrebbe rilevare che, rispetto a Peter Singer, Giubilini e Minerva argomentano con minore attenzione alla sofferenza di feti e neonati: il filosofo australiano, infatti, in coerenza con la sua impostazione utilitaristica, auspica che tra la diciottesima settimana e la nascita (quando il feto è forse dotato di coscienza, anche se non autocosciente) gli interventi abortivi vengano eseguiti con pratiche indolori per il feto17. Di quest’attenzione al dolore del feto (e dei neonati) non c’è traccia nel contributo di Giubilini e Minerva. Certo, essi riconoscono che il «diritto di non essere lesi» spetta «a coloro che sono capaci di provare solamente dolore e piacere (come forse i feti e certamente i neonati)»; ma questa enunciazione di principio non trova poi adeguata eco nella valutazione complessiva dell’intervento abortivo, anche post-natale. Dal punto di vista utilitaristico, ci pare questa una carenza degna di nota.

Indubbiamente più problematica ci pare l’argomentazione a sostegno della preferibilità dell’aborto post-natale di un bambino indesiderato rispetto a un’eventuale adozione del neonato. Anche in questo caso gli Autori sostengono che «gli interessi delle persone effettive implicate è importante», per cui «tra questi interessi dobbiamo considerare anche quello della madre che potrebbe soffrire per il fatto di dare il proprio figlio in adozione»; ma pur riconoscendo che le ragioni da loro addotte non sono definitive, sostengono che «se l’interesse delle persone effettive deve prevalere, allora l’aborto post-natale dovrebbe essere valutato come una scelta accettabile per le donne che subirebbero un danno nel dare in adozione il proprio figlio». Non siamo certo utilitaristi; facciamo però una certa fatica a vedere – nella logica della massimizzazione della felicità – come l’eventuale dolore della madre debba necessariamente eccedere la felicità complessiva della coppia adottante (magari in situazione di sofferenza per la mancanza di un figlio), della loro cerchia familiare e, in prospettiva, di quella che potrebbe contrassegnare la vita del neonato dato in adozione. Ci si potrebbe anzi chiedere per quale ragione dare tanto peso alla sofferenza di una madre che ha rifiutato il suo figlio da parte di Autori così attenti alla massimizzazione della felicità: forse per rimuovere il rimprovero di quella coscienza in cui sovente risuona l’eco di genuine istanze di umanità, banalmente accantonate da una riflessione che ha finito per smarrire i sentieri della verità sul bene?


Note

Dottore di ricerca in Teologia Morale
Docente Ordinario di Teologia Morale presso la Pontificia Università Salesiana
Docente incaricato presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – Sezione di Torino e il Master Universitario in Bioetica della medesima Facoltà.

GIUBILINI  A., MINERVA F., After-Birth Abortion: Why Should the Baby Live?,  in «Journal of Medical Ethics», published online February 23, 2012.

TOOLEY  M., Abortion and Infanticide, in «Philosophy and Public Affairs», 2, 1 (1972), 37-65.

10 SINGER P., Practical Ethics, Cambridge University Press, Cambridge – New York 1979.

11 SAGLIANI C., L’uomo dei desideri ovvero «dell’antropologia neoutilitarista», in «Acta Philosophica», 12, 2 (2003), 265-292, 267.

12 SEN A., WILLIAMS B. (edd.), Utilitarismo e oltre, Net, Milano 2002, 9.

13 SINGER  P., Practical Ethics cit.

14 MORI M., Manuale di bioetica. Verso una civiltà biomedica secolarizzata, Le Lettere, Firenze 2010, 145.

15 LONERGAN B.J.F., Il metodo in teologia, Città Nuova, Roma 2001.

16 MERLO P., Fondamenti & temi di bioetica, LAS, Roma 20112, cap. 3.

17 SINGER P., Practical Ethics cit.

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