Abstract
Nel corso della gestazione si crea un legame emozionale tra la madre e il concepito, che si rafforza sempre di più man mano che prosegue la gravidanza. L’aborto-dopo-la-nascita, a gestazione conclusa, sarebbe visto unanimemente come altamente problematico dal punto di vista psicologico. Inoltre, è vero che in alcuni paesi è accettata quella che potremmo definire una eutanasia di “infanti con prognosi senza speranza e sofferenza intollerabile” (Groningen Protocol, 2002). Ma la soppressione di un neonato che abbia davanti a sé un’esistenza sostenibile costituirebbe una ferita nella deontologia medica talmente grave da far ritenere che non vi sia medico, in qualunque parte del mondo, che possa farsene carico.
Aspetti medici
Carlo Campagnoli18
Nell’articolo di Giubilini e Minerva, il punto essenziale della proposta di aborto dopo-la-nascita è il «sottolineare che lo “status” morale dell’individuo ucciso (il neonato) è comparabile con quello di un feto (sul quale gli “aborti” in senso tradizionale sono eseguiti)». Infatti, «sia il feto che il neonato certamente sono esseri umani e persone potenziali».
Trascurando la questione filosofica di se e quando un essere umano possa essere definito persona, le asserzioni su riferite sono, dal punto di vista biologico e medico, sostanzialmente condivisibili (pur con un importante “ma…”, su cui torneremo tra poco).
In effetti, l’evento cruciale per la vita di ogni essere umano è il momento della penetrazione della testa dello spermatozoo paterno attraverso la membrana dell’oocita materno. Esso pone la premessa per la fusione del patrimonio genico dell’oocita con quello di quel preciso spermatozoo, con formazione del genoma, assolutamente unico ed originale, del nuovo essere, mentre l’oocita diventa (di norma) impermeabile ad altri spermatozoi. È ben vero che l’evoluzione può arrestarsi, ma quando prosegue si tratta indiscutibilmente dell’evoluzione di quel ben preciso essere umano. Le modificazioni ambientali ulteriori di tipo epigenetico possono costituire, al confronto, anche eventi di rilevante impatto biologico, ma secondari in quanto sovraimposti a quel ben preciso programma genetico che si stabilisce con la fecondazione. Tutta l’evoluzione successiva è un “continuum”, che passa, è vero, attraverso le fasi di embrione, feto e poi neonato, che definiscono situazioni morfologicamente e funzionalmente differenti, ma con significato non dissimile (rispetto a quel ben preciso essere umano, che tale è e continua ad essere) rispetto alle fasi ulteriori dell’infanzia, prescolarità, scolarità, adolescenza, prima giovinezza, seconda giovinezza, età adulta, maturità, etc.
Fatta questa premessa veniamo al “ma” di cui sopra: l’unico vero grande stacco sta nella nascita, con l’acquisizione dell’indipendenza dall’organismo materno, che fa sì che il neonato, evidentemente bisognoso di essere accudito, possa essere accudito da chiunque. Quindi non una modificazione di quello che è stato, è e sarà quell’essere umano, ma importante differenza nelle sue relazioni con gli altri.
Stupefacente è il come viene affrontato il problema psicologico per la madre del cosiddetto aborto-dopo-la-nascita. Nel corso della gestazione si crea un legame emozionale con il concepito, che si rafforza sempre di più man mano che prosegue la gravidanza. In linea generale si ritiene che i problemi psicologici siano tanto più limitati quanto più sia precoce l’aborto volontario. Il ridurre il danno psicologico è una delle argomentazioni usate per promuovere il cosiddetto aborto medico (Ru 486) che può (e, per motivi tecnici, deve) essere espletato entro la 6a-7a settimana (nel corso del 2° mese) di gestazione, mentre l’aborto chirurgico viene espletato in genere una-due settimane dopo (inizio del 3° mese). Costituisce anche l’argomentazione più rilevante per promuovere la cosiddetta diagnostica pre-impianto nella fecondazione “in vitro”, procedura che permetterebbe di individuare embrioni portatori di anomalie genetiche, la cui eliminazione sarebbe appunto meno gravata da danni psicologici di un aborto volontario a seguito di diagnostica prenatale: villocentesi, 11°-12° settimana, o amniocentesi, 16° settimana. Anche tra queste due procedure di diagnostica prenatale la prima, pur essendo più rischiosa in termini di compromissione della gravidanza, è presentata come accettabile in quanto l’eventuale decisione abortiva porterebbe ad un intervento meno rischioso non solo dal punto di vista fisico ma anche psicologico.
L’aborto-dopo-la-nascita, a gestazione conclusa, sarebbe visto unanimemente come altamente (direi intollerabilmente) problematico dal punto di vista psicologico. L’argomentazione che il “lutto” di una perdita irreversibile possa essere messo sullo stesso piano, o forse addirittura inferiore, a quello di una perdita conseguente all’adozione, è priva di ogni buon senso. Non è possibile paragonare il “lutto” di chi perde un bambino per evento naturale (ad es. la morte improvvisa in culla, oppure la morte per una malattia che abbia visto familiari e medici impegnati per evitarla o per ridurne le pene) con quello di chi lo perda irreversibilmente perché ne ha disposto la soppressione (magari per motivi che in quel momento sembrano buoni).
Ultima riflessione sulla posizione del medico. È vero che in alcuni paesi è accettata quella che potremmo definire (ben diversamente dal caso dell’aborto-dopo-la-nascita) una eutanasia di “infanti con prognosi senza speranza e sofferenza intollerabile” (Groningen Protocol, 2002). Ma la soppressione di un neonato che abbia davanti a sé un’esistenza sostenibile costituirebbe una ferita nella deontologia medica talmente grave da far ritenere che non vi sia medico, in qualunque parte del mondo, che possa farsene carico.
18 Medico ginecologo-endocrinologo – Clinica Fornaca, Torino
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