Nel clima peculiare delle ultime battute della legislatura e in una fase in cui una questione delicata come il fine vita era rientrata nel gioco della definizione degli schieramenti alle prossime elezioni, il 14 dicembre 2017 è stata approvata la Legge n. 219/2017 Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (DAT). L’iter parlamentare del provvedimento era stato accompagnato – com’era lecito attendersi – da numerose prese di posizione, di diverso segno, anche in ambito ecclesiale. Pure il Gruppo di studio sulla bioetica di Aggiornamenti Sociali aveva ritenuto opportuno intervenire (2017)1. Il dibattito è stato animato anche nei giorni immediatamente successivi all’approvazione della legge, soprattutto a opera di chi ne ha evidenziato i limiti e i possibili rischi. L’avvenuta approvazione della legge non rappresenta solo il punto di arrivo dei lavori parlamentari, ma è un punto di partenza per le dinamiche che la nuova normativa metterà in moto nella società italiana e nel sistema sanitario. In che modo è possibile far tesoro delle perplessità che il testo di legge suscita per favorire prassi applicative che scongiurino le derive più pericolose? Quali opportunità di impegno e di azione si aprono ai cattolici italiani e alle istituzioni che alla Chiesa fanno riferimento per abitare responsabilmente il tempo delle DAT?
L’elaborazione di una legge sul tema del fine vita, con un’attenzione specifica all’“accanimento terapeutico” nel quadro delle possibilità aperte dal continuo progresso tecnologico in campo biomedico, percorre tutta la legislatura che si sta concludendo: la legge approvata lo scorso 14 dicembre è infatti il frutto dell’unificazione di oltre 20 proposte depositate da parlamentari di una delle due Camere. La prima fu presentata addirittura in occasione della prima seduta del Senato, il 15 marzo 2013. Ma la questione è ben più antica: già nel 2003 il Comitato nazionale per la bioetica aveva segnalato l’opportunità di una normativa su questa materia, anche per dare attuazione alla Convenzione sui diritti umani e la biomedicina (Convenzione di Oviedo>, 1997), precisando pure alcuni criteri da tenere presenti. Prima di quella approvata a fine 2017, nessuna delle proposte presentate lungo oltre un decennio aveva però terminato il proprio iter, nemmeno sull’onda dell’emotività suscitata da travagliate vicende come quelle di Piergiorgio Welby (2006), Eluana Englaro (2009) o, più recentemente, Fabiano Antoniani (noto come DJ Fabo).
1. Con lo sguardo in avanti
L’obiettivo di queste pagine non è però ricostruire il percorso che ha condotto all’approvazione della nuova legge, né passare in rassegna le diverse posizioni che si sono confrontate nell’acceso dibattito. In questo momento ci sembra più urgente volgere lo sguardo in avanti: la nuova normativa esiste e a breve comincerà a produrre i suoi effetti nella vita dei cittadini, che potranno avvalersi delle opportunità che essa stabilisce, e nell’organizzazione del sistema sanitario, che dovrà tenerne conto. Tutti saremo chiamati in causa da questo processo, quanti si sono dichiarati soddisfatti (in misura diversa) dal testo approvato e quanti ne hanno dato una valutazione negativa.
Certo, come in ogni altro caso, anche su questa materia è sempre possibile un nuovo intervento del Parlamento che modifichi la normativa. Impegnarsi per cambiare la legge resta in teoria una strada aperta per coloro che si trovano in disaccordo con quanto essa prevede. L’esito di tali tentativi resta comunque appeso alla costruzione di un consenso sufficientemente ampio sulle modifiche da apportare e all’imprevedibilità dei tempi. Quanto meno, anche solo per cominciare, occorrerà attendere l’insediamento del nuovo Parlamento.
Nel frattempo la legge sarà comunque in vigore e richiederà di essere applicata: il dibattito che ne ha accompagnato l’iter risulta prezioso perché ha evidenziato una serie di punti critici a cui prestare attenzione proprio nella fase di attuazione. Come ogni legge, anche questa andrà operativamente interpretata sul piano delle procedure del sistema sanitario. Si apre a questo livello uno spazio di azione per evitare derive che una cattiva applicazione della legge potrebbe aprire. In quest’ottica presentiamo le riflessioni che seguono, senza la pretesa di dar conto dell’intero dibattito sulla L. n. 219/2017 (i cui contenuti sono sinteticamente esposti nella Scheda a p. 124).
2. Elementi di contesto
L’approvazione della L. n. 219/2017 si inserisce all’interno di un contesto culturale, sociale e giuridico in continuo movimento sulla materia che stiamo considerando: è opportuno tenerne conto quando si ragiona sullo specifico della nuova normativa italiana. In primo luogo dobbiamo registrare un crescente consenso anche internazionale sulla opportunità di regolare la materia attraverso leggi specifiche, e non solo attraverso norme più generali o facendo affidamento alla deontologia della professione medica, che già prevedono sia l’esclusione dell’eutanasia e dell’ostinazione terapeutica, sia la considerazione da parte del medico delle preferenze che il paziente esprime (anche anticipatamente) quanto ai trattamenti e alla loro limitazione 2. La nuova normativa potrebbe quindi apparire superflua. Tuttavia da una parte le norme deontologiche non hanno valore di legge, dall’altra la dispersione delle norme in fonti diverse non ne permette l’articolazione organica. Anche il già citato parere del Comitato nazionale per la bioetica auspicava un intervento legislativo in materia.
Il secondo elemento di contesto che la nuova normativa rispecchia è il rilievo crescente che si attribuisce all’autodeterminazione del paziente nella relazione con il medico. Ce lo mostra anche l’ultima edizione della Dichiarazione di Ginevra, che si può considerare l’aggiornamento del tradizionale giuramento di Ippocrate, elaborata e approvata nell’ottobre 2017 dall’autorevole World Medical Association (WMA, Associazione medica mondiale): per la prima volta compare nel testo l’impegno a «rispettare l’autonomia e la dignità del paziente». Questa evoluzione dell’attività clinica appare peraltro corrispondere a quanto prevede la Costituzione italiana, in particolare all’art. 32: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge».
Certo, l’autonomia è una categoria che può essere intesa in diversi modi. Ne va difesa un’interpretazione relazionale, rispetto a quella più diffusa di impronta individualista e funzionale alla convenienza socioeconomica (cfr Casalone 2006; Olivier e Thiel 2017). La questione è ben più ampia dell’ambito medico e investe l’insieme della società, e in particolare la forza di quei legami che ne sostanziano la coesione (cfr Paugam 2018). Particolarmente delicato è il caso di tutte le relazioni, tra cui quella terapeutica, in cui l’equilibrio è asimmetrico, rinviando a dinamiche di autorità e di dipendenza. La legge non potrà prescindere da questo clima culturale, strettamente connesso allo sviluppo della democrazia.
3. Gli snodi controversi
All’interno di questo contesto sociale e culturale va collocato anche l’esame dei nodi problematici emersi nel dibattito sulla nuova legge, che segnalano i punti a cui prestare attenzione per evitare derive nella fase di applicazione. Indichiamo qui i principali, facendo anche qualche cenno all’esperienza francese, che ci sembra offrire alcuni elementi che possono essere di aiuto.
a) L’autonomia e i suoi limiti
L’importanza che la legge attribuisce all’autodeterminazione della persona malata non la fa però diventare assoluta: essa incontra infatti limiti sufficientemente chiari quando si stabilisce che il paziente «non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinicoassistenziali» (art. 1, c. 6). Viene così richiamato il criterio dell’appropriatezza clinica dei trattamenti, valutata dai curanti, che hanno la competenza per farlo anche sul piano degli standard scientifici e professionali vigenti, nel rispetto della propria coscienza.
Questo non elimina certo ogni dubbio sul comportamento da tenere in ciascun singolo caso, cosa che sarebbe peraltro impossibile sulla base di una norma di legge. Una prima ragione – sulla seconda torneremo nel paragrafo sull’obiezione di coscienza – è che non vi è coincidenza tra appropriatezza clinica e proporzionalità delle cure.
Lo ha sottolineato papa Francesco nel recente Messaggio alla WMA (2017): «per stabilire se un intervento medico clinicamente appropriato sia effettivamente proporzionato non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale». Occorre un
discernimento che coinvolge la coscienza del malato, cui anzi viene riconosciuto «il ruolo principale». Questo percorso risulta particolarmente impegnativo «nell’odierna attività medica, in cui la relazione terapeutica si fa sempre più frammentata e l’atto medico deve assumere molteplici mediazioni, richieste dal contesto tecnologico e organizzativo» (cfr anche Casalone 2017).
Si potrebbe presentare quindi il caso di un paziente che rifiuta un trattamento ritenuto appropriato dal medico che lo cura. Questa eventualità è già stata considerata in altri Paesi in occasione del dibattito intorno a leggi su questa stessa materia. Ad esempio, già nel 2004, mons. Jean-Pierre Ricard, all’epoca presidente della Conferenza Episcopale Francese (CEF), commentando un progetto di legge, che fu poi approvato nel 2005, riguardo a cure che potrebbero consentire un significativo prolungamento della vita affermò: «Può capitare che un malato rifiuti allora qualsiasi intervento sul suo corpo, a eccezione delle “cure di conforto”. I curanti non potranno che sottomettersi, dopo aver esaurito le risorse del dialogo» (nostra trad.). Un atteggiamento quindi di accompagnamento e di accoglienza, che non sopprime naturalmente le opzioni previste dalla deontologia in caso nascessero riserve del medico a prestare la propria opera professionale (cfr Codice di deontologia medica, art. 22).
La stessa questione riguardo ai criteri di riferimento è stata sollevata a proposito dell’art. 2, c. 2, che obbliga il medico ad «astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione di cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati» nei casi di «prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte». Giustamente si è notato che espressioni come “breve termine” o “imminenza” sono molto aleatorie. Ma occorre anche aggiungere che la legge richiama qui indicazioni che valgono nella cura di qualunque malato. Pure in situazioni che non sono di fine vita non è legittimo ostinarsi irragionevolmente o somministrare trattamenti sproporzionati. Anche se la fase in cui la morte si approssima riveste una particolare delicatezza, valgono comunque i criteri di trattamento che sempre regolano l’attività medica (cfr Sulmasy 2016).
b) Nutrizione e idratazione artificiali
Sul tema del rifiuto e della sospensione di particolari trattamenti, la questione più complessa e controversa è quella della nutrizione e idratazione artificiali (NIA), che la legge include tra i trattamenti sanitari. Il medico è tenuto a rispettare la volontà del paziente che le rifiuti con una consapevole e informata decisione, anche anticipatamente espressa in previsione dell’eventuale perdita della capacità di scegliere ed esprimersi. La delicatezza della questione nasce da una parte dal grande valore simbolico di cibo e acqua per le relazioni umane, dall’altro dal fatto che la loro mancanza conduce a morte per fame e sete.
Va detto che l’art. 1, c. 5 precisa che per NIA si intende la «somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici»; pertanto l’analogia con il pane e l’acqua è piuttosto remota. Inoltre, nei casi in cui lo stato di coscienza è fortemente compromesso o assente – come nello stato vegetativo permanente (SVP) o, come più precisamente si dice oggi, sindrome di vigilanza non responsiva (unresponsive wakefulness syndrome, UWS; cfr Reichlin 2012, 24) –, la percezione soggettiva della fame e della sete è piuttosto dubbia, anche per la complessità del quadro metabolico e il ruolo che vi può svolgere lo squilibrio elettrolitico. Sullo sfondo rimane la questione della revoca di un presidio di sostegno vitale. Alcuni ritengono che, qualora si sospendessero le NIA, la causa della morte sarebbe l’azione del medico che interrompe il trattamento e non la malattia stessa con il suo decorso3. Si tratterebbe però di esaminare se non si stia adottando una concezione riduttiva della malattia, intesa come alterazione di una particolare funzione dell’organismo, e quindi della cura, che si focalizza sul mantenimento di singole funzioni dell’organismo. Viene così persa di vista la globalità della persona, in quanto essere corporeo, e il suo bene complessivo, che è il quadro al cui interno vanno interpretate le singole funzioni dell’organismo, capacità di nutrirsi inclusa. In questa linea ci sembra doversi interpretare l’affermazione di papa Francesco (2017), quando asserisce che gli interventi tecnologici sul corpo
Su questa linea si è posto anche il Gruppo di Lavoro della CEF nei suoi commenti al progetto di legge sul fine vita, poi approvato dal Parlamento francese nel 2016 e noto come legge Claeys-Leo-netti. Ribadendo una predisposizione favorevole all’uso delle NIA, da considerarsi dovute in linea di principio nello SVP (o UWS), qualora ne fosse richiesta la sospensione, la decisione
Un anno più tardi, a legge appena approvata, il Gruppo commenta: «l’arte medica discerne quando la rinuncia alla nutrizione e alla idratazione artificiali corrisponde alla miglior cura da prestare» (Groupe de travail sur la fin de vie 2016, nostra trad.).
c) Stesura e valore delle DAT
Riguardo alle disposizioni anticipate di trattamento, due sono i punti che sollevano difficoltà. Il primo è rappresentato dalle condizioni della loro redazione. Secondo l’art. 1, c. 1, alla persona maggiorenne e competente per «esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari» si chiede solamente di acquisire «adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte». Non si escludono, ma neanche si prescrivono, procedure che garantiscano il dialogo con un medico di fiducia, che accompagni nella corretta comprensione delle situazioni cliniche. Il rischio che le DAT si riducano a un atto formale riguardo a dispositivi tecnici è reale e andrà evitato sul piano applicativo, favorendo uno stile che consenta una corretta comprensione dell’informazione così come un confronto consapevole con il limite e con eventi che interpellano il senso profondo del vivere. Appare decisamente più chiaro e convincente quanto si dispone a proposito della pianificazione condivisa delle cure, che riguarda i casi di patologie croniche e invalidanti o in evoluzione verso una prognosi infausta (art. 5).
Da dx avv. Mauro Ronco, Professore Emerito di Diritto Penale (relatore) e prof. Enrico Larghero, medico – teologo e membro del CCB (moderatore) – foto A. D’Angelo
Il secondo interrogativo riguarda l’impatto delle DAT sulla libertà professionale del medico, tenuto a rispettarle (art. 4, c. 5). Su questo punto valgono i criteri a difesa dell’esercizio professionale “in scienza e coscienza” già ricordati circa il consenso informato (art. 1, c. 6). Ma va rilevato che la legge si esprime in modo decisamente infelice quando afferma che le DAT «possono essere disattese […] in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente icongrue o non corrispondenti alla situazione clinica attuale». I ostenitori più spinti dell’autodeterminazione del paziente vedono
qui un possibile escamotage per eluderne le volontà. Ma in realtà sarebbe meglio dire che il medico non disattende le DAT, quanto piuttosto svolge il proprio compito cercandone l’interpretazione più corretta nelle circostanze concrete. Infatti se esse sono incoerenti, sono impossibili da applicare; se non sono pertinenti al contesto clinico, sarebbe improprio attuarle.
d) Obiezione di coscienza ed eutanasia
Un ulteriore rilievo mosso alla legge è di non prevedere l’obiezione di coscienza. Inserirla solleverebbe però difficoltà non trascurabili, in primis perché non è chiaro verso quale comportamento specifico si attuerebbe l’obiezione. Non siamo in una situazione simile a quella dell’aborto, in cui si può definire facilmente la fattispecie a cui ci si riferisce. Qui si tratterebbe di comportamenti non sempre e non univocamente determinabili, che anzi in alcune situazioni sarebbero professionalmente leciti, se non doverosi. Inoltre, i giuristi segnalano la difficoltà a configurare un’obiezione non a compiere un determinato atto, ma ad astenersi dal farlo o a sospendere un’azione precedentemente intrapresa: obiettare significherebbe in questo caso dare avvio ad azioni che potrebbero comportare una imposizione di trattamento sanitario, in violazione dell’art. 32 Cost. Tenendo presenti queste considerazioni, l’unica obiezione di coscienza comprensibile sarebbe nei confronti dell’eutanasia. Ma questo richiederebbe di assumere che la legge introduca l’eutanasia nel nostro ordinamento, interpretazione che ci appare decisamente forzata4.
La definizione di eutanasia adottata dal Magistero (cfr il riquadro a fianco), prevede che essa possa risultare non solo da una azione, ma anche da una omissione. Tuttavia è indispensabile considerare anche l’intenzione: è eutanasia l’azione o l’omissione che si propone di abbreviare la vita. Non è necessariamente questo il caso del medico che asseconda il rifiuto del paziente di iniziare o continuare un trattamento, con il risultato di provocare la morte. Se infatti questa “omissione” arriva dopo un’accurata valutazione che identifica nella terapia in questione un trattamento sproporzionato, non ci troveremmo di fronte a eutanasia, ma alla sospensione di una “ostinazione irragionevole”. Un secondo punto delicato è quello della terapia del dolore, che può giungere fino alla sedazione profonda continua (art. 2, c. 3). Non pare che mediamente questo tipo di trattamento abbrevi la vita, anzi i dati empirici sostengono piuttosto il contrario. Tuttavia, anche se così fosse in qualche caso, già Pio XII nel 1957 (b) aveva chiarito che non è eutanasia la somministrazione di analgesici con l’intenzione di trattare il dolore, anche se si prevede che tale intervento accorci la vita. Anche in questa situazione l’elemento dirimente è l’intenzione di chi agisce, che può imprimere ad azioni esteriormente uguali due significati etici differenti.
Qui risiede una ulteriore ragione per cui una norma di legge non può fornire una prescrizione univoca per ogni concreta situazione. Si tocca così il punto cruciale che si colloca all’intersezione tra diritto ed etica, indicandone al contempo un’importante differenza: il primo parla il linguaggio generale delle condotte e delle fattispecie, la seconda si rivolge alla coscienza. Per questo ci sembra molto pertinente la considerazione del Gruppo di lavoro della CEF: una legge
e) Abbandono terapeutico
Un’ultima perplessità che è stata sollevata riguarda la possibile spinta verso l’abbandono terapeutico. Nel testo si rintracciano però vari elementi che non confermano tale interpretazione. Si chiede al medico di promuovere «ogni azione di sostegno […] anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica» (art. 1, c. 5) nella fase di elaborazione della scelta e accertamento della volontà del paziente, e di assicurare al malato le cure necessarie in situazioni di emergenza (art. 1, c. 7), mentre si incoraggia l’impiego delle cure palliative anche nel caso in cui il paziente rifiuti di seguire lo specifico trattamento indicato dal medico (art. 2, c. 1). Nella stessa linea, a proposito dei minori, si prevede che i medici controllino con attenzione le richieste del rappresentante legale o dell’amministratore di sostegno, e che si rivolgano al giudice tutelare qualora non le ritengano adeguate alla tutela della persona: si tratta di una extrema ratio, a cui tuttavia in ambito pediatrico capita di ricorrere. Non si menziona la possibilità di un contributo da parte dei Comitati etici indipendenti, ma questo non esclude che si possa recuperare in fase applicativa.
4. Possibili linee di impegno
Il dibattito che ha accompagnato l’iter di approvazione della legge, in cui sono emersi i rilievi a cui abbiamo fatto qui sopra riferimento, è stato acceso, come accade abitualmente per gli ambiti eticamente più sensibili. Non è mancato il ricorso agli strumenti della dialettica parlamentare, compreso l’ostruzionismo da parte di alcune forze politiche. Il risultato è stato l’irrigidimento dei fautori del progetto, blindando la discussione al Senato (anche per ragioni pre-elettorali) e ostacolando i tentativi di chi puntava a introdurre qualche correttivo mirato e significativo. Il loro esito non era scontato, anche se nelle fasi precedenti il lavoro in questa linea aveva prodotto frutti. La logica dello scontro ha invece ridotto gli spazi di un dialogo già di per sé non facile. Di questo occorre tenere conto nel discernimento tra le opzioni che restano aperte dopo l’approvazione della legge: vanno valutate con attenzione, tenendo presenti le mediazioni effettivamente possibili sul piano politico e i margini di compatibilità con l’ethos condiviso.
Come già dichiarato in apertura, l’opzione che ci sembra più convincente è prendere atto della legge, pur con le sue incongruenze e ambiguità, e procedere nella linea del dialogo per contribuire alla ricerca di soluzioni per quanto possibile condivise, piuttosto che quella della contrapposizione. Su questa linea ci sollecita papa Francesco (2017):
Per questa strada sembra più raggiungibile l’intento di «tutelare tutti i soggetti coinvolti, difendendo la fondamentale uguaglianza per cui ciascuno è riconosciuto dal diritto come essere umano che vive insieme agli altri in società».
Il caso della procreazione medicalmente assistita, regolata dalla L. n. 40/2004, induce a qualche riflessione sui risultati a cui si giunge quando si privilegia l’opzione della contrapposizione. Lungo gli anni le sentenze della Corte costituzionale hanno prodotto un bilanciamento quanto meno discutibile nella tutela dei diversi interessi in campo, per di più in mancanza di un quadro di riferimento unitario. Le Regioni sono intervenute per colmare le lacune con iniziative di dubbia legittimità, ma comunque con effetti decisamente contrari allo spirito originario della legge: la fecondazione eterologa oggi in Italia non solo è consentita, ma avviene in un contesto che tutela la libertà dei “procreatori” assai più dei diritti dei “procreati” (cfr Rossi 2015). Applicare la logica della contrapposizione anche al fine vita, insistendo sui tentativi di riforma o sulla richiesta di inserire la possibilità di obiezione di coscienza, rischia di estremizzare le interpretazioni della legge e di perdere anche le mediazioni finora ottenute nella logica di una partecipazione costruttiva alla dialettica democratica (Eusebi 2017).
Non vanno invece sottovalutate le potenzialità di un lavoro attento nella fase di attuazione della legge, favorendone un’interpretazione che accentui il significato culturale della relazione di cura come prospettiva globale in cui inquadrare tutta la questione. A questo riguardo sarà dirimente la cura per la formazione del personale sanitario – non solo delle strutture legate alla Chiesa – e la promozione del ruolo dei Comitati etici indipendenti. Si apre anche uno spazio per percorsi di accompagnamento nell’elaborazione delle DAT, che ne evitino la deriva burocratica e permettano alle persone di appropriarsi della profondità della decisione in gioco. Un lavoro serio in questo ambito avrà un impatto pure sul clima culturale e sull’ethos condiviso. Anche il tema delle cure palliative e della terapia del dolore, su cui il nostro Paese ha ancora molta strada da fare, richiederà un’attenzione competente. Non tagliarsi fuori dal dibattito risulta di fondamentale importanza per poter essere presenti nel cammino di attuazione della legge. Questa considerazione conduce a preferire per le strutture sanitarie cattoliche la ricerca di possibili accordi amministrativi con il sistema sanitario che stabiliscano le specifiche prestazioni erogate. A riguardo va tenuto presente che i casi controversi saranno numericamente ridotti e lo scostamento dalle pratiche già in atto, finora regolate secondo l’etica e la deontologia professionali, sarà di conseguenza piuttosto limitato.
Note
* É il testo del prof. Carlo Casalone S.J., intitolato «Abitare responsabilmente il tempo delle Dat», edito nella rivista Aggiornamenti Sociali, rubrica «Approfondimenti» del febbraio 2018 (pp.112-123) <www.aggiornamentisociali.it> che qui pubblichiamo per Sua gentile concessione. Il prof. Carlo Casalone, coordinatore della sezione scientifica della Pontificia Accademica per la Vita, è intervenuto come relatore al Convegno «Disposizioni anticipate di trattamento e obiezione di coscienza» del 19 maggio 2018 tenutosi presso la Facoltà Teologica di Torino, sul tema «Valutazione generale della legge e la centralità dell’alleanza medico-paziente».
1 «Custodire le relazioni: la posta in gioco delle DAT», in Aggiornamenti Sociali, 8-9 (2017) 585-587; il testo era già apparso sul suo sito il 15 giugno 2017, dopo l’approvazione del ddl da parte della Camera il 20 aprile.
2 Il Codice di deontologia medica vigente esclude interventi diagnostici e terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati (art. 16), atti finalizzati a provocare la morte (art. 17) e obbliga a tenere conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento (artt. 38-39).
3 Sul caso della ventilazione artificiale, che presenta numerose analogie, già nel 1957 (a) Pio XII ne definiva non obbligatoria l’attivazione e lecita la sospensione.
4 Cfr. D’Agostino F., «Il dovere ultimo di affrontare la realtà», in Avvenire, 16 gennaio 2018.
Risorse
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I contributi apparsi su Aggiornamenti Sociali in materia
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– TUROLDO F., «Responsabili delle fragilità: La tutela umana nella ricerca scientifica», 2 (2012) 126-135.
– GRUPPO DI STUDIO SULLA BIOETICA, «Quando la capapacità di decidere viene meno. Questioni etiche di fronte all’Alzeimer», 9-10 (2009) 571-586.
– SARNePI-GRUPPO DI STUDIO PER LA BIOETICA, «Scelte di fine vita in rianimazione pediatrica», 6 (2009) 453-463.
– AMCI MILANO, «Sull’alimentazione e idratazione artificiali», 6 (2009) 450-452.
– SORGE B., «Fine vita: la riflessione etica continua», 1 (2009) 5-10.
– GRUPPO DI STUDIO SULLA BIOETICA, «Il caso Welby: una rilettura a più voci», 5 (2007) 346-357.
– CASALONE C., «Decisioni di fine vita. Sul contributo del card. Martini C.M., «IO, Welby e la morte», 3 (2007) 247-229.
– CASALONE C., «Come decidere sulla fine della vita? Considerazioni etiche sul “testamento biologico”», 12 (2006) 811-822.
– CASALONE C., «La richiesta di morte tra cultura e medicina. Per un discernimento etico», 11 (2002) 731-742.
– CASALONE C., «La medicina di fronte alla morte. Tra eutanasia e accanimento terapeutico», 7-8 (2002) 547-558.
SCHEDA: I CONTENUTI ESSENZIALI DELLA L. N. 219/2017
La legge «tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato» (art. 1, c. 1), tranne i casi previsti dalla legge. Si promuove la relazione di cura e fiducia
tra medico e paziente; il consenso informato è punto di articolazione tra autonomia del primo ed esercizio responsabile della professione del secondo, favorendo anche il coinvolgimento dell’insieme dell’équipe sanitaria e dei familiari. Accertamenti diagnostici e trattamenti sanitari possono essere rifiutati, inclusa
la nutrizione e idratazione artificiali, «in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici» (art. 1, c. 5). Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente, che però «non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali» (art. 1, c. 6). Ogni struttura sanitaria garantisce l’attuazione dei principi enunciati nella legge.
Il medico si impegna ad alleviare le sofferenze e il dolore, anche in caso di rifiuto di alcuni trattamenti; in caso di morte prossima deve evitare «ostinazione irragionevole» e trattamenti «sproporzionati» (art. 2, c. 2). È consentita la «sedazione palliativa profonda continua» (art. 2, c. 3).
Per quanto riguarda minori e incapaci, si terrà conto per quanto possibile della loro volontà da parte di genitori, tutore o amministratore di sostegno, sempre nell’intento di tutelare la salute, la vita e la dignità della persona. In caso di disaccordo si ricorre al giudice tutelare (art. 3).
In previsione di un eventuale stato di incapacità, acquisite adeguate informazioni mediche, il cittadino può esprimere la propria volontà in materia di trattamenti sanitari tramite le DAT e nominare un fiduciario. Il medico è tenuto a rispettarle, salvo il caso in cui risultino – in accordo con il fiduciario – «palesemente
incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente» (art. 4, c. 5). Se l’accordo mancasse, si ricorre al giudice.
Nel corso di una patologia cronica invalidante, medico e paziente possono procedere a una pianificazione condivisa delle cure: una valutazione concordata in cui convergono competenza clinico-scientifica di chi cura e prospettive di valore della persona malata. Viene così superato il limite di una sola adesione
iniziale alla proposta del medico (consenso informato) o di una stesura delle DAT sulla base di un’informazione astratta dalla situazione concreta di malattia e priva di un adeguato contesto
relazionale. L’équipe sanitaria ha obbligo di attenersi a quanto stabilito (art. 5).
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